È difficile capire cosa passi per la mente degli eccellentissimi giudici della Cassazione quando sentenziano. Certo è che non ci risparmiano mai i colpi di scena, i giochi di fuoco. Un processo che arriva lì è sempre un azzardo, non importa cosa ci sia nelle carte o quali siano le verità affiorate nei giudizi precedenti, ci sono verdetti che provocano capogiri.

Come quelli fenomenali sulla giudice Silvana Saguto e sul poliziotto Renato Cortese, sesta e quinta sezione penale della Suprema Corte, due vicende assai diverse fra loro ma che rivelano quanto la giustizia possa risultare lontana dalla realtà e riservarci sorprese sgradevoli. Con un doppio colpo ieri la Cassazione ha ribaltato ciò che non era ribaltabile con il buon senso (d'altronde, i cavilli servono proprio a questo), ha smentito ogni logica previsione della vigilia, ha frantumato un robusto impianto accusatorio che stava portando in carcere quella era chiamata “la zarina di Palermo” e ha ordinato un nuovo dibattimento per un processo definito dagli stessi giudici «un romanzo senza prove».

Faide fra magistrati

Sullo sfondo dei due casi s'intrecciano simpatie e malanimi nelle stanze di qualche tribunale, faide fra magistrati, il fastidioso sentore che la legge non sia proprio uguale per tutti.

Cominciamo dalla Saguto, condannata in secondo grado a 8 anni e 10 mesi a Caltanissetta per corruzione, una volta la donna più potente della Sicilia e di fatto - per la quantità di beni confiscati alle mafie che amministrava - la più grande imprenditrice da Roma in giù. Radiata dalla magistratura, aveva trasformato il tribunale palermitano delle misure di prevenzione in un suq, complici familiari e amici, fra i beneficiari un po' di magistrati con parenti al seguito. La Cassazione le ha concesso una piccola “grazia”: fra prescrizioni e ricalcoli, con un quarto processo la sua pena molto probabilmente sarà ridotta di un terzo, ma, nonostante questo, ieri a tarda sera l'ex giudice è stata arrestata. Di segno opposto il destino di Renato Cortese, che come capo della squadra mobile di Roma fu accusato nel 2013 di sequestro di persona nei confronti di Alma Shalabayeva (e di sua figlia Alua) mentre era alla ricerca del marito latitante, il kazako Muktar Ablyazov.

Una storia semplice

Una storia semplice ingarbugliata dalla politica italiana, con un capro espiatorio facilmente individuato per buona pace di tutti. Invece di ricercare eventuali responsabilità ai livelli più alti del Viminale, ministro dell'Interno era Angelino Alfano, una frettolosa e pasticciata indagine ha preferito colpire il poliziotto più noto trascinandolo con alcuni suoi colleghi in un'aula di tribunale a Perugia mettendogli addosso il marchio infame di “rapitore” e "traditore”. E solo per avere applicato la legge sull'immigrazione. Da brividi. Con il giudice di primo grado, scatenato, che l'ha condannato al doppio di quanto richiesto dall'accusa: 5 anni. Ancora da brividi. Nel frattempo Renato Cortese, l'investigatore che nell'aprile del 2016 aveva catturato il boss Bernardo Provenzano dopo 43 anni di latitanza, ha dovuto lasciare il suo incarico di questore di Palermo e, solo qualche mese fa, è stato nominato prefetto.

Da sequestratore all'assoluzione “perché il fatto non sussiste”, dai commenti poco lusinghieri sui giudici di primo grado fino alla Cassazione che - pur non entrando nel merito - dice che è tutto da rifare. Codici e labirinti, leggi e percorsi kafkiani. Se questa è la giustizia oggi in Italia, meglio non averci a che fare neanche di striscio.

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