Il nostro paese declina, da quasi trent’anni, perché ha scelto una strategia di crescita fallimentare. Lo ha fatto per semplice convenienza, di breve periodo. Nel contesto della globalizzazione e della moneta unica, anziché cercare di diventare come le altre economie forti del continente (una via faticosa, rischiosa), noi abbiamo pensato di continuare a incentivare un modello di piccole e piccolissime imprese che giocoforza non riescono a investire nell’innovazione: e che quindi non possono fare altro che cercare di competere riducendo i salari e il peso delle imposte.

È una competizione perdente, con i giganti dell’Asia, o anche solo con l’est Europa. E che ha ulteriori conseguenze negative: il nostro debito aumenta, o i beni pubblici si deteriorano (mancando le risorse per investire in istruzione, ricerca, amministrazione, infrastrutture); i lavoratori più qualificati vanno via. Si stringe la tenaglia del declino.

Le responsabilità sono molto diffuse. Vanno dalla parte oggi maggioritaria di Confindustria, ben rappresentata da Carlo Bonomi, al variegato mondo dei servizi, arroccato nella difesa di corporazioni e privilegi, contro le liberalizzazioni. Coinvolgono larga parte dello spettro politico: si pensi alle resistenze del centro-destra a ogni politica di liberalizzazione negli ultimi venti anni (la vicenda dei balneari è solo l’ultimo esempio), alle scelte fiscali che vanno per la maggiore (un solo esempio: la flat tax per le partite Iva fino a 65mila euro di fatturato), a tutta una serie di incentivi alla piccola e piccolissima impresa disseminati nel corso dei decenni, di solito ignoti al grande pubblico.

Ad esempio, noi abbiamo dovuto attendere il 2011 per una legge che obbligasse le imprese a fornire una lista dei beni aziendali ad uso privato della proprietà (e a mero scopo informativo, senza sanzioni o limiti): è la pratica del tunnelling, che incentiva le piccole imprese familiari e con cui peraltro si eludono le tasse (se compro la macchina con i soldi della mia azienda, ne faccio anche scendere i profitti), e da noi tacitamente accettata, da sempre.

Oggi però si intravede una via di uscita. Per la prima volta da decenni, siamo nelle condizioni di spezzare la tenaglia del declino. Le riforme e gli investimenti del Recovery possono finalmente consentire di rimuovere alcuni ostacoli che impediscono la crescita della produttività, e aiutare il nostro paese a ricostituire quel livello di beni pubblici (infrastrutture, istruzione, amministrazione, giustizia, sistema fiscale) fondamentale per ogni economia avanzata.

In questo quadro, chiedere l’introduzione del salario minimo, o difendere il reddito di cittadinanza (pur con tutti i suoi difetti), serve anche a evitare che ci si rifugi di nuovo nella strategia opposta, fallimentare. In fondo questa è la posta in gioco. Ne va del futuro dell’Italia. Ed è forse la nostra ultima possibilità.

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