Alla fine del 2018, nelle conclusioni di un nostro precedente lavoro, ci eravamo posti una domanda: il Pd è un partito (ancora) «riformabile»? «Valeva la pena» impegnarsi a raddrizzare questo «legno storto», o non era meglio azzerare tutto? Quelle domande, naturalmente, sono ancora più stringenti, oggi, alla luce dei risultati del 25 settembre. E i dubbi sulla possibilità che questo partito si possa salvare sono ancora più diffusi.

Quale che sia il suo futuro, il Pd deve sceglierlo ora attraverso un «congresso«: ma dubitiamo fortemente che quanto si sta mettendo in moto abbia il respiro e la forza che sarebbero necessarie.

Non si può pensare di rimpannucciare il tutto con una nuova “carta dei valori” o eleggendo un/una segretario/a, ancora una volta, di fatto, intrinsecamente fragile e vulnerabile, una leadership esposta alle intemperie di un partito non più governabile. Ma, in ogni caso, staremo a vedere, incuriositi...

Nel dibattito seguito alle elezioni è emerso il tema dello “scioglimento” del Pd: riteniamo che il tema sia mal posto, ma che nondimeno la questione rimane nell’ordine delle cose possibili.

Un partito può certo decidere di «sciogliersi», ma in genere questo accade se e e quando appare pronta una soluzione di ricambio, qualcosa che si presuma e si spera possa salvare ma anche rilanciare le forze esistenti.

E’ accaduto anche ai Ds e alla Margherita, quando decisero di svolgere dei congressi paralleli di «scioglimento», proprio perché si prospettava la nascita del nuovo Partito Democratico.

Lo scioglimento involontario

Pensare che il Pd si possa sciogliere non è in sé un obiettivo che abbia senso proporsi; e tuttavia si può temere che ad uno «scioglimento» si possa giungere ugualmente, e non perché qualcuno lo decida.

Se il Pd non si rivela in grado di affrontare seriamente i dilemmi esistenziali che lo attanagliano, un rapido precipitare degli eventi, un avvitamento su se stesso, può sempre accadere. 

Un partito si può “sciogliere”, ma non perché qualcuno lo decida: può succedere, per consunzione, o per un rapido deperimento. Dovrebbe essere oramai chiaro a tutti che il Pd, così com’è, non regge, non può andare avanti: ma potrà bastare ad evitare il collasso il tipo di “percorso costituente” che è stato avviato? E quanto “nuovo” sarà, il “nuovo Pd”?

Il progetto di un partito-tenda, di un partito-ombrello, («all’americana», come si diceva allora) sotto cui raccogliere tutti «i riformismi» e tutti i democratici, si è rivelato fallimentare: non ha funzionato. 

E quindi, a questo punto, una cosa oramai è certa: si deve scegliere, se non si vuole arrivare a scioglierlo, questo partito.

E bisogna scegliere, innanzi tutto, una prospettiva ideale, un’identità politico-culturale, un modello di democrazia (per sé e per le istituzioni).

Questione di cultura
 

Appare molto dubbio che, in queste poche settimane, dopo anni di vuoto, si possa affidare alle “mozioni” dei candidati la soluzione dei nodi, quelli veri, che il Pd ha di fronte. Si potrebbe farne l’elenco, fino a giungere al cuore della questione identitaria del Pd: un partito che si colloca nel solco del pensiero socialista europeo, con tutte le innovazioni che sono oggi necessarie (e con una forte e visibile presenza, non della “cultura cattolica”, in quanto tale, ma della cultura politica della sinistra cattolica); o un partito che pensa di svolgere il ruolo di una forza più o meno genericamente “liberal”, aperta alle suggestioni della tecnocrazia?

Per arrivare, infine, anche alle questioni di “schieramento”: il Pd, dopo gli equilibri emersi dalle urne, può ancora pensare che una formula come quella della “vocazione maggioritaria” abbia una qualche credibilità?

Tutti questi temi, dai più “identitari” ai più “tattici”, avrebbero potuto e dovuto essere l’oggetto di un congresso che si fosse fondato, sin dall’inizio, sul confronto e di “documenti politici” alternativi, o anche su un “manifesto” comune, una cornice preliminare di principi condivisi, preparato da una commissione nominata dal partito ma sottoposto al voto e agli emendamenti dei partecipanti.

Anche per questo appare incomprensibile l’idea di concepire la stesura del “manifesto dei principi e dei valori” del “nuovo Pd” come se fosse un passaggio di ordinaria amministrazione e una questione solo di buona cultura e di competenza, e di “mondi” sociali, intellettuali e professionali, da consultare: cosa scriveranno in questo Manifesto i saggi componenti del Comitato Costituente Nazionale?

Non vorremmo essere nei loro panni. E’ evidente come non può spettare ad una cerchia illuminata di sapienti (e lo scriviamo senza ironia) la definizione dell’identità politica di un partito.

Visione del mondo, programmi e politiche, e insieme identificazione delle parti della società che ci si propone di rappresentare, sono per un partito i due lati che si devono “tenere insieme” strettamente: nel Pd non è mai accaduto; né temiamo, con queste premesse, ci possiamo attendere che accada oggi.

Un vero «processo costituente», con il respiro, e direi anche la solennità, di un momento veramente fondativo, non ci sembra possa nascere dalla faticosa mediazione raggiunta sulla road map congressuale.

La seprazione consensuale

Se si fosse voluto davvero tornare a parlare ai tanti, iscritti ed elettori, che nel corso di questi quindici anni se ne sono andati, e ai molti che alla ricostruzione di una sinistra sarebbero pur interessati, sarebbe stato necessario delineare un percorso credibile nel garantire una reale apertura a tutti possibili esiti, che non ne precludesse nessuno, compreso quello (che appare peraltro sempre più credibile e inevitabile) di una separazione consensuale: ossia, il prendere atto, serenamente e con realismo, che ci sono oramai prospettive e culture politiche troppo divaricate dentro questo partito, e che la convivenza di tali prospettive non produce più nulla, se non paralisi e afasia per tutti. 

Le scelte di autoconservazione emerse dalle ultime decisioni dei vertici del Pd – la paura di un processo davvero “senza rete” – temiamo che nascano dal non aver compreso fino in fondo come non fosse più credibile e praticabile l’idea che questo partito - nel recinto sempre più angusto dei suoi confini – possa rinnovarsi e cambiare pelle, possa trovare la forza di risollevarsi da sé, come un novello Barone di Münchhausen che si tiri fuori dalla palude aggrappandosi al codino dei propri stessi capelli.

Troppo avanzati, in tutti questi anni, sono stati i processi di mutazione, il cambiamento delle «ragioni sociali» di questo partito, troppo invasivi gli innesti «extra-corporei» che ha subito, per poter oggi pensare che questo organismo possa rivitalizzarsi attraverso una battaglia politica interna, e che lo si possa fare con le solite «primarie» (che, come crediamo di aver ampiamente dimostrato, non garantiscono alcuna possibilità di reale confronto politico nel partito e peraltro non producono nemmeno la legittimazione di una «forte» leadership).

Il “percorso costituente”, almeno nei termini che finora si stanno delineando, non appare certo sufficiente a correggere tutto questo.

Servirà a “rifare” davvero il partito? O forse, a questo punto, non vale più la pena nemmeno provare a rifarlo, questo partito? non è una fatica improba e improduttiva accanirsi nel voler “salvare” un qualcosa che, di per sé, non sembra più avere nulla di dire alla società italiana?


Questo testo è un estratto da Pd. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi di Antonio Floridia, Castelvecchi editore. © 2022 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione

© Riproduzione riservata