Fallita la guerra lampo e il controllo integrale del Donbass la terza fase della tragedia ucraina mette l’Europa dinanzi a due domande. La prima, secca come dev’essere, è se sia possibile vincere una guerra contro una potenza nucleare.

La seconda è quali siano a oggi le condizioni di una “vittoria” dell’Europa e dell’Occidente. Nello specifico, è possibile, anche solo ipotizzabile, che la sconfitta dello “zar” si consumi sul terreno di battaglia o dall’alto coi bombardieri a fare il loro lavoro? E di risulta, quali implicazioni avrebbe nel dopo l’umiliazione non già della dittatura del Cremlino, ma della nazione russa?

Le possibilità future

Il presidente francese Emmanuel Macron ha spiegato perché sia un errore puntare a quell’obiettivo. La stessa telefonata tra il segretario alla difesa americano e il ministro della Difesa russo è apparsa ad alcuni il tentativo di riallacciare un dialogo interrotto per oltre due mesi, cosa mai avvenuta nemmeno durante la Guerra Fredda. Il punto è che l’idea di un cambio di regime a Mosca non pare contemplare quale potrebbe essere la pagina successiva. Se l’ingresso sulla scena di una figura migliore di quella di adesso o persino peggiore (ammesso sia possibile). Anche per questo l’Europa ha ogni interesse a che le armi tacciano e si apra la strada di una trattativa destinata a un compromesso, compresi gli aspetti territoriali, con garanzie di sicurezza per i confini di entrambi e di tutela delle minoranze.

Uno sbocco che consenta alla Federazione russa di uscire dalla trappola micidiale che hanno fabbricato e nella quale si sono gettati. Letta così, la visita di Draghi a Washington un segnale l’ha dato con la sottolineatura dell’unità che l’Unione Europea ha mantenuto nel rapporto con l’alleato storico, e al contempo la via di un negoziato come massima aspirazione dei popoli di questa nostra parte di mondo.

Il tutto non è un dettaglio, soprattutto se al centro collochiamo il dopo. E in quel dopo come ha detto benissimo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso al Consiglio d’Europa, c’è una nuova Helsinki, non un’altra “cortina di ferro”. In questo credo vi sia un giudizio politico, un interesse strategico, ma anche un dovere morale. Noi tutti abbiamo ereditato un continente che ha preservato a lungo la pace in uno schema di distensione con l’est europeo. Oggi non ci è dato il diritto di lasciare a chi verrà dopo un’Europa di nuovo divisa e incapace di convivere.

Il disarmo nucleare

Questo significa riaprire il dossier sul disarmo lungo il solco del trattato sui missili nucleari a media gittata – in misura significativa smantellati prima che gli accordi venissero violati da Vladimir Putin e denunciati dall’amministrazione Trump nel 2019 – e che oggi si deve agganciare a un nuovo trattato sul disarmo delle testate nucleari tattiche. È un punto decisivo perché dovendo e volendo rispondere alla prima domanda (si può vincere una guerra contro una potenza nucleare?) la sola risposta è disarmare il continente nella coscienza che la semplice ipotesi di quella guerra va bannata dall’agenda e dal futuro dell’Europa.

Di un’Europa che – è bene ricordarlo – non è da tempo il centro di un mondo dove la spesa militare, come riportato da questo giornale, ha superato nel 2021 i 1.321 miliardi di dollari. Lo 0,7 per cento in più sul 2020, con un incremento del 12 per cento negli ultimi dieci anni.

Ultimo interrogativo, questa mole enorme di risorse ha voluto dire un pianeta più pacifico e sicuro? No, è vero l’opposto. Ha voluto dire che oggi circa settanta paesi nel mondo sono coinvolti direttamente o indirettamente in conflitti armati. Ma è per questo che – come dopo il 1945, e a differenza della Versailles del 1919 – tocca ancora a questo nostro continente, culla di quell’Illuminismo così disprezzato da Alexander Dugin come da Viktor Orban – farsi promotore, non da solo, di quel nuovo ordine globale che drammaticamente è venuto a mancare e senza il quale, gli ultimi mesi lo dimostrano, parlare di pace, sicurezza e cooperazione è semplicemente impossibile.

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