Uno spettro s’aggira per l’Italia. Si chiama, in gergo, radicalizzazione della lotta politica.

La parola suona male, rimanda a tempi troppo antichi, a un galateo desueto, a prediche già sentite e risentite e ormai quasi stucchevoli. Eppure quello spettro non ha molto del nostro passato. Anzi. Esso sembra semmai annunciare un futuro del tutto inedito. Non più gli eccessi dello scontro, per non dire i fantasmi della Guerra fredda. All’opposto l’irrilevanza della disputa politica. Quella disputa che appare distruttiva e invece sta solo, più banalmente, consumando sé stessa.

Culto della forza

Le apparenze sono altre. Ma sono apparenze, appunto. A destra balza all’occhio il culto illusorio della propria forza. I presidenti dei due rami del parlamento, scelti con cura ai lati estremi del perimetro indentitario e votati da se stessi senza nulla concedere al dialogo istituzionale.

E una squadra di governo selezionata a quanto pare senza troppa fantasia e del tutto priva di nomi che possano dare l’idea – anche solo l’idea – di volersi rivolgere a un mondo più largo e più vario. Insomma, è il culto del fortilizio. Forti del risultato elettorale, i partiti della maggioranza dichiarano al mondo la loro spavalderia, convinti che i loro numeri, ancorché non troppo esaltanti, giustifichino qualsiasi baldanza.

A sinistra per così dire risponde uno squillo. Nel confuso confabulare del Pd post lettiano si avverte la presa di una certa suggestione post grillina. Il buon risultato elettorale di Conte risveglia infatti nel principale partito di opposizione una tendenza a cavalcare gioiosamente nelle praterie della protesta, quasi scusandosi delle troppe concessioni a Draghi e alla sua agenda e annunciando finalmente il ritorno allo spirito delle barricate.

Uno spostamento progressivo fuori dai confini dello ztl, capace finalmente di tornare in sintonia cin quella radicalità da cui negli ultimi anni si era cercato di fuggire a gambe levate. Con qualche buona ragione, peraltro.

Al netto di un centro più piccolo, eppure forse non del tutto irrilevante, si affrontano dunque una destra più destra e una sinistra più sinistra.

Due blocchi di forze che sembrano cercare in sé stessi, nella pienezza delle loro parole d’ordine, il proprio principio ispiratore. Senza più doversi annacquare nel culto desueto delle buone maniere e/o nell’illusione di conquistare gli incerti e i tiepidi. E pazienza se il costo di queste due speculari e simmetriche operazioni identitarie finisce per essere la diserzione dalle urne di qualche milione di elettori senza più rappresentanza.

Vorrebbe essere la fine dei complessi. Il gusto di presentarsi finalmente sotto le proprie insegne, senza più bisogno di andare in cerca di legittimazioni improbabili e senza il fastidio di doversi rivolgere a segmenti di elettorato sempre più lontani e irraggiungibili.

Quasi l’idea di poter finalmente bastare a se stessi. Dunque, una destra senza remore, che può recitare in libertà le parole d’ordine più estreme. E una sinistra che finalmente risponde colpo su colpo, senza perdersi nei meandri di una ormai improbabile ricerca del suo altrove. Appare questo l’esito che le elezioni consegnano agli uni e agli altri. Finalmente, verrebbe da dire.

Allargare il consenso

Ora, la mia obiezione a questo scenario non ha nulla a che vedere con il galateo. Non invocherò le buone maniere, il dialogo tra le fazioni, il disarmo bilanciato degli estremi, il culto della moderazione e tutte le altre consimili litanie. E nemmeno il venerato fantasma di Aldo Moro – che della radicalizzazione della lotta politica aveva fatto ai suoi tempi il fantasma della propria inquietudine. Vorrei piuttosto cercare di capire dove portano queste due opposte tifoserie. Se esiste una possibilità, anche una sola, che esse allarghino la loro sfera di consenso.

O se invece stanno perdendo terreno, tutte e due, nel momento in cui si chiudono in un fortilizio indentitario sempre più stretto e angusto.

Laddove non ci guidano i buoni sentimenti, potrebbe sempre venirci un soccorso un calcolo minimamente lungimirante delle nostre stesse convenienze. Anche quelle di parte. Ma non pare questo il caso.

Il fatto è che nessuno si fa problema della sua stessa difficoltà a trovare un uditorio più largo della propria tifoseria. Così, ognuno finisce piuttosto per parlare quasi solo a sé stesso e ai suoi cari. Diffidando della possibilità di convincere chi non è già convinto di suo.

Ne discende a quel punto una somma di parzialità che finisce per essere la vera matrice di un nuovo, inedito consociativismo. Che consente alla destra di fare dei suoi La Russa e dei suoi Fontana le proprie bandiere.

E induce la sinistra a cercare a sua volta di fare altrettanto, se appena può. Senza la fatica di cercare troppo ardite innovazioni, gli uni e gli altri. Infatti, cercare di convincere gli elettori dell’altra parte o cercare di motivare i molti (ormai troppi) elettori casalinghi paiono un po’ a tutti come quelle imprese troppo vicine all’inutilità perché valga davvero la pena di sobbarcarsele.

Desolazione politica

L’esito finale di questa reciproca rincorsa a rinchiudersi nel fortilizio delle proprie anguste certezze è quello di rendere sempre più desolato il campo della politica. Che non a caso viene a poco a poco eroso dall’astensionismo e consegnato allo spirito militante di un numero ogni volta più esiguo di votanti.

Cosa di cui i nostri eroi si lamentano, salvo fare poco o niente per rompere quell’assedio, nutrito ormai di una sorta di polemica indifferenza. Accolta peraltro, a sua volta, con serafico fatalismo.

Così però lo spazio della politica si fa sempre più angusto. Chi ha forza economica se la gioca sui mercati (soprattutto esteri). Chi ha forza professionale scommette sulla specializzazione. Chi ha forza burocratica confida nell’inerzia. Chi ha forza mediatica coltiva i suoi canali. Chi ha forza religiosa si tiene ben alla larga da ogni rischio di coinvolgimento nella sfera civile. E chi non ha forza di suo rinuncia perfino alla speranza di trovarla da qualche altra parte.

Ne nasce un circolo vizioso. La politica infatti finisce per parlare a una platea più scarna e distratta. E fuori dai circuiti dove essa cerca di organizzare se stessa fioriscono protagonismi che si fanno forti e quasi si fanno vanto di avere poco o nulla a che vedere con le vicissitudini di quello che una volta si chiamava il palazzo.

Laddove non ci sono più sovrani, ma sono rimasti pochi cortigiani a farne le veci. Quello che sto cercando di dire è che ormai abbiamo preso una deriva che porterà la politica a governare (si fa per dire) territori sempre più angusti. E a governarli, per giunta, in nome di interessi sempre più piccoli. Fino a determinare una vera e propria crisi della nostra collettiva sovranità.

Non invoco i buoni sentimenti. Faccio appello semmai all’istinto di sopravvivenza. E mi permetto di dire che una politica che contempla solo i propri tifosi e non sa trarre nessun vantaggio dai propri antagonisti e dall’intreccio dei propri nobili diverbi diventa prima o poi un deserto sempre più arido e spopolato.

Per questo mi piacerebbe vedere all’opera qualcuno che fosse capace di andare oltre il suo spirito di parte. Non (solo) perché conviene all’etica pubblica. Ma anche perché porterebbe un vantaggio a sé stessi. Perfino a sé stessi, è il caso di dire.

 

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