Trent’anni fa, un gruppo di professori dell’università di Bologna, di cui faceva parte anche il futuro presidente del Consiglio Romano Prodi, raccontò di aver appreso il luogo dove le Br tenevano prigioniero Aldo Moro durante una seduta spiritica che si era tenuta nella villa di uno di loro, situata nel piccolo comune di Zappolino, poco fuori Bologna.

Da allora, la seduta spiritica di Zappolino si è aggiunta all’infinita lista di misteri che giornalisti, parlamentari e dietrologi di professione hanno accumulato sul caso Moro. Nella sua intervista, pubblicata oggi sul Corriere della Sera, Walter Veltroni torna su quell'episodio e lo indica come una delle molte questioni irrisolte di quella vicenda che necessitano di essere sciolte prima che la ferita degli Anni di piombo si possa rimarginare.

Ma a guardarla da vicino, la vicenda di Zappolino può raccontare anche una storia diversa. Più se ne analizzano i dettagli e meno sembra essere adatta a una narrazione fatta di grandi complotti e cospirazioni, spie internazionali e segreti inconfessabili che devono ancora essere svelati. È invece una storia molto italiana, che ci parla soprattutto di chi siamo e di cosa pensiamo, ancora oggi.

La storia, in breve

La versione ufficiale di come andarono le cose durante la “seduta parapsicologica” di Zappolino è contenuta in una lettera firmata da tutti i partecipanti. Una versione dalla quale nessuno di loro ha mai deviato nei quattro decenni successivi.

Il 2 aprile del 1978, Alberto Clò, professore dell’università di Bologna, invitò un gruppo di colleghi e le loro famiglia a trascorrere un pomeriggio nella sua villa fuori Bologna. Quel giorno pioveva e i convenuti decisero di ingannare il tempo giocando al “gioco del piattino”, un modo per “evocare gli spiriti” e porre loro delle domande.

Su un grande foglio di carta scrissero le lettere dell’alfabeto, in modo da formare una sorta di cerchio. Al centro posero un piattino, sul quale i partecipanti posarono le dita. Una volta evocato lo spirito, almeno secondo la teoria, questi avrebbe guidato il piattino, spingendolo verso ciascuna lettera in modo da formare una risposta alle domande che gli venivano poste.

Moro era stato rapito da due settimane e così i partecipanti raccontarono che gli venne naturale chiedere dove fosse tenuto prigioniero il presidente della Dc. Il piattino inizialmente indicò sequenze di lettere prive di senso, come k, z, t, r. Poi, all’improvviso, le lettere indicate iniziarono a formare una parola che sembrava avere un qualche significato: Gradoli.

Nessuno sapeva cosa significasse, ma visto che non sembrava un insieme casuale di lettere, dissero, decisero di proseguire a interrogare lo spirito. Alla fine, emersero parole “Viterbo” e “Bolsena” e una serie di altre indicazioni. Insospettito, qualcuno andrò a prendere uno stradario dalla sua automobile e venne fuori che “Gradoli” era in realtà un paese sulla strada che da Roma va verso Viterbo, vicino al lago di Bolsena.

Due giorni dopo, Romano Prodi si trovava a Roma e riferì dell’esito della seduta spiritica al portavoce del segretario della Democrazia cristiana che a sua volta ne parlò con il capo di gabinetto del ministero dell’Interno, Luigi Zanda (ex presidente della società che pubblica Domani). L’appunto che prese Zanda quel giorno è arrivato fino a noi. C’è scritto: «Lungo la statale 74, nel piccolo tratto in provincia di Viterbo, in località GRADOLI, casa isolata con cantina».

Il mistero

Tutto il mistero della seduta spiritica di Zappolino ruota intorno al fatto che la parola “Gradoli” aveva effettivamente a che fare con il rapimento di Aldo Moro. Non perché il luogo della sua prigionia si trovasse in un paesino del viterbese, ma perché in via Gradoli, a Roma, si trovava il nascondiglio di Mario Moretti, l’organizzatore del rapimento.

Dopo l’incontro con Prodi, il ministero dell’Interno chiese alla questura di Viterbo di ispezionare il luogo indicato dai professori. Non venne trovato niente ed è una leggenda che il paese di Gradoli fu messo a soqquadro da centinaia di agenti: l’ispezione venne condotta fuori dalla cittadina e non se ne seppe nulla fino a dopo l’uccisione di Moro.

Il mistero della seduta di Zappolino è doppiamente affascinante perché da un lato i professori produssero tramite una “seduta parapsicologica” un’indicazione che era davvero relativa al sequestro Moro, ma allo stesso tempo quell’indicazione era doppiamente sbagliata: non si riferiva al luogo della prigionia, ma al nascondiglio di uno dei brigatisti, e indicava con diversi dettagli (una casa isolata con cantina lungo la statale 74) un luogo che con il rapimento non c’entrava niente.

Quando tre anni fa ho iniziato a cercare documenti e testimoni per raccontare questa storia, mi sono lasciato sedurre dall’ipotesi più grottesca, ma allo stesso tempo affascinante. E cioè che la parola “Gradoli” venne fatta apparire per scherzo da uno dei partecipanti al gioco (è piuttosto facile “barare" al gioco del piattino) e che tutto quello che ne conseguì fu in realtà un’incredibile coincidenza, che sarebbe ridicola se non ci fosse di mezzo la morte di Moro e degli uomini della sua scorta.

La spiegazione più plausibile, però, e quella accettata dagli storici più seri, è che uno dei partecipanti alla “seduta” era venuto a sapere dove si trovava un nascondiglio delle Br. Per avvertire le autorità, proteggendo la sua fonte, decise di imbastire la scena della seduta spiritica.

Il fatto che l’indicazione fosse così precisa, ma al contempo così sbagliata, forza un po’ la nostra credulità e ci costringe a pensare che il meccanismo del “telefono senza fili”, con cui questa informazione si suppone sia arrivata dai brigatisti che conoscevano il covo ad alcuni studenti universitari e poi all’orecchio di qualche professore vicino al movimento e infine al gruppo di Prodi, l’abbia distorta fino a renderla inutilizzabile.

Zappolino e noi

Sulla seduta, come su ogni altro aspetto del Caso Moro, si sono sprecate le dietrologie e le interpretazioni più fantasiose. La regola è sempre la stessa: nulla è come sembra, non succede niente per caso e c’è sempre una grande intelligenza (un grande vecchio) che manovra nell’ombra.

Come ha dimostrato il lavoro certosino di storici come Vladimiro Satta, archivista del Senato e consulente di tutte le principali commissioni d’inchiesta che si sono occupate degli anni di piombo, la maggior parte delle teorie più strampalate non resiste ad un’analisi storica accurata. Per gran parte degli storici più rigorosi, il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro è una vicenda chiarita almeno nei suoi elementi essenziali.

Cosa ha ancora da raccontarci, quindi, la storia di Zappolino? 

Prima di tutto, ci offre uno spaccato inedito delle nostre classi dirigenti. L’Italia della fine degli anni Settanta era un luogo dove era concepibile che un gruppo di stimati professori (che sarebbero divenuti presidenti del Consiglio, ministri, viceministri o presidenti di importanti società pubbliche) si riunisse una domenica pomeriggio per fare una seduta spiritica e ne riferisse i risultati alle autorità. Ed era possibile che quei risultati venissero presi seriamente da importanti funzionari di partito e del ministero dell’Interno.

Questo episodio non è un’eccezione. Medium, indagatori dell’occulto e suore mistiche furono seriamente coinvolti in vari momenti nelle indagini su Moro, e non solo. Erano, dopotutto, gli anni di Adolfo Rol, il mago di Torino, e in cui gli autori della trasmissione Rischiatutto prendevano precauzioni per evitare che un concorrente autodefinitosi “parapsicologo” leggesse le risposte del quiz nella mente di Mike Bongiorno.

L’Italia di quegli anni era molto più ingenua, umana e modesta di quello che oggi ci piace pensare. E questa lente, forse, andrebbe applicata a molto altro di quello che è accaduto in quegli anni. Il tentativo di Moro di inserire il Partito comunista nella maggioranza di governo era uno storico spartiacque nella storia politica dell’Europa, come sostiene Veltroni nel suo articolo, o una manovra di tattica politica per condividere con l’opposizione almeno una parte delle responsabilità di governare in un momento economicamente e politicamente difficilissimo?

A proposito dei misteri che pervadono la nostra storia recente, lo scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger ha scritto che gli italiani sono pronti a credere a tutto ciò che «mette sotto accusa le loro classi dirigenti». L’altra faccia della medaglia è che non sono disposti a credere che quelle stesse classi dirigenti possano agire per caso, per leggerezza o per stupidità.

È un fenomeno che chi studia la psicologia delle teorie del complotto conosce bene. I cospirazionisti tendono a essere cinici nei confronti del resto del mondo e della classe politica in particolare. Hanno una bassa stima in sé stessi e la sensazione di non poter cambiare in alcun modo il mondo che li circonda. Sono così spaventati da una realtà che non comprendono che preferiscono pensare che ci sia un disegno occulto dietro a ogni evento, piuttosto che accettare che la storia viene determinata molto spesso dal caso.

Non sembra questo un ritratto che si potrebbe applicare benissimo alla psicologia collettiva italiana? Dagli anni Settanta, l’Italia non sembra cambiata più di tanto. È ancora un paese cinico, con poca fiducia in sé stessa e in chi la guida, sempre pronto vedere ovunque cospirazioni, trattative e dietrologie, tanto a destra quanto a sinistra. Ancora oggi preferiamo credere che il paese sia irrimediabilmente corrotto, nelle mani delle mafie, dei massoni o dei servizi segreti, piuttosto che accettare la realtà più prosaica che ci circonda.

Pensare che chi ci guida è un burattino di forze oscure alla fine ci consola. Pensare che forse è solo sciocco, o più semplicemente, umano, ci terrorizza.

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