«L’impensabile è accaduto». Di nuovo. Ci stavamo lasciando alle spalle, con questa frase, la stanchezza e la fatica psicologica, sociale, relazionale di due anni di lotta alla pandemia, quando si presenta alle nostre porte una vera guerra dove il nemico non è invisibile, e porta con sé solo disperazione, sangue e morte.

L’effetto di una guerra oltre ad essere un dramma umanitario, non ha solo conseguenze politiche, economiche e sociali, ma importanti conseguenze psicologiche generando stati post-traumatici che si protraggono nel tempo non solo sulle popolazioni direttamente interessate.

Già qualche settimana fa, da quando i media hanno iniziato l’infowar sulla crisi in Ucraina, confrontandomi con colleghi psicoterapeuti abbiamo notato come tanti adolescenti e giovani adulti avessero iniziato a portare in seduta ansia e preoccupazione per quello che sarebbe potuto accadere, e che nessuno di noi avrebbe immaginato.

«Ci dicevano che sarebbe andato tutto bene, ma invece non è andato bene nulla. Ora i miei genitori e i professori ci dicono di non preoccuparci e di stare tranquilli, ma come possiamo fidarci?». È la sintesi del pensiero di Francesco, nato a fine 2001 sotto l’ombra del crollo delle Torri Gemelle e che ora commenta con gli amici le immagini di un grattacelo di Kiev altrettanto squarciato.

Nel mezzo ci sono quasi ventidue anni di attentati terroristici dal Bataclan a Charlie Hebdo, di disastri ambientali e una pandemia ancora in corso che ha stravolto modo di studiare, uscire per un aperitivo, fare l’amore, pensare al futuro di migliaia di ragazzi.

Nell’ordine, i giovani si sono sentiti, spaventati, arrabbiati, trasparenti, presi in giro: ora sono stanchi e hanno paura. Hanno paura di dover riavvolgere il nastro e tornare indietro, alla casella di partenza, lasciandosi sotterrare ancora una volta da numeri che non hanno a che vedere con i contagi del Covid, ma quelli delle vittime di una guerra vera, molto più vicina degli scenari visti in serie tv o nei videogiochi.

Le prime vittime di una guerra, ad ogni latitudine, sono sempre i ragazzi. Non mi riferisco solamente ai bambini ed adolescenti Ucraini che in questo momento cercano salvezza con le loro famiglie tra le bombe, o i bambini malati oncologici che gli amici di Fondazione Soleterre stanno cercando di mettere in salvo a Kiev garantendo loro continuità medica ed assistenziale, ma a tutti i ragazzi. Anche i nostri figli, che in queste ore sono travolti da notizie ed immagini sui social e in televisione.

Noi adulti, genitori, educatori tutti abbiamo ora la possibilità di riscattare la nostra debolezza educativa degli ultimi due anni in cui, con l’intento di proteggerli dalla morte, li abbiamo infantilizzati rischiando di banalizzare le loro domande.

Non dobbiamo fare dei comunicati stampa imponendo il nostro racconto, ma dobbiamo dimostrarci disponibili ad ascoltarli e sintonizzarci con le proprie emozioni, e soprattutto dire la verità. Se necessario, essere noi a sollecitare loro con delle domande, senza avere paura di traumatizzarli, anzi apprezzeranno genitori che desiderano dialogare con loro.

Così come le guerre sono sempre ingiuste, non esiste un modo giusto per raccontare loro la guerra, ma sarebbe ingiusto, ancora una volta, non accogliere un loro desiderio, perché è proprio prendendosi cura del desiderio che possono attecchire e generare la fiducia nel futuro e la speranza.

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