La Russia è certa sia il momento di ripensare lo status quo europeo. Impossibilitata a convivere con l’attuale penetrazione della Nato, intende recuperare terreno nel suo estero vicino. Strutturalmente insicura, vuole (parzialmente) ristabilire la propria sfera d’influenza. Imponendosi sull’Ucraina. La congiuntura internazionale è propizia. Gli Stati Uniti si mostrano introvertiti, distratti dallo scontro interno tra i cittadini dell’interno, stremati dallo sforzo imperiale, e quelli costieri, ormai ignari di vivere in una superpotenza. Strategicamente concentrati sull’Indopacifico, inclini a risolvere con occhiuta seraficità le beghe esistenti altrove. Le principali nazioni europee risultano, al solito, indecise sul da farsi. Quelle centro-orientali comprensibilmente russofobe e quelle occidentali oscillanti tra l’indifferenza nei confronti dell’Orso e la malcelata simpatia per le sue rivendicazioni.

Cosa vuole Putin

Di qui la scelta per il Cremlino di agire adesso. Prima cercando di avanzare le proprie condizioni attraverso il negoziato. Con gli americani che hanno accettato la trattativa, ma senza fornire le garanzie massimaliste richieste dal Cremlino.

Quindi optando per la guerra in assenza di concessioni concrete. Con lo stanziamento di quasi 200mila soldati al confine con l’Ucraina aderente al mutamento della tattica putiniana, inizialmente pensato per corroborare il potere negoziale russo, poi impiegato per invadere il paese. Svolta segnata dall’improvvisa decisione di riconoscere le sedicenti repubbliche del Donbass, segnale del fallimento dei colloqui.

A muovere il Cremlino obiettivi alquanto massimalisti. Arrestare il contenimento ai propri danni, ordito dagli americani e appaltato a molti ex membri del patto di Varsavia. Imporre la neutralità dell’Ucraina, con un possibile inclinare di Kiev verso Mosca. Vedersi riconosciuta dignità da grande potenza, affrancandosi dall’ingiuriosa definizione di soggetto regionale pronunciata da Barack Obama.

Vasto programma che l’opzione militare rischia di non garantire. Questa ha certamente dimostrato come nessun paese occidentale intenda morire per Kiev. E impedirà all’Ucraina di entrare nella Nato, costringendola a concordare indirettamente con Mosca la propria postura strategica. Ma sarà complesso ricavare una vittoria strategica da una mossa tanto rischiosa. Specie se le truppe russe decidessero di stanziarsi sul territorio, a fronte di una crescente ostilità della popolazione ucraina occidentale. Conseguenze assai più negative delle severe sanzioni elaborate da Washington e Bruxelles, cui l’Orso è mediamente abituato.

Un drammatico rovescio

Le cause della guerra hanno origine antica. Gemmano dalla cronica insicurezza russa e dalla volontà statunitense di conservare la presa sul continente europeo. Tradotte nella tendenza moscovita a ignorare le ambizioni dei vicini per schermarsi preventivamente da eventuali attacchi, nell’americana disponibilità a proteggere quei paesi che realizzano il contenimento del nemico. In un contesto reso incandescente dalla natura eminentemente imperiale dei due contendenti.

Con il crollo dell’Unione Sovietica, Washington cominciò ad avvicinare attraverso la Nato molti degli ex satelliti d’Oltrecortina, garantendo protezione dal revanscismo del Cremlino. Fino a sfiorare i confini di Bielorussia, Georgia, Ucraina, nella massima intimità della strategia russa, invocante l’allontanamento da sé della prima linea di difesa.

Eppure fino al 2014 l’Ucraina, il più rilevante dei cuscinetti pretesi da Mosca, era rimasta distinta dalla sfera d’influenza statunitense, continuando a guardare verso oriente. La rivoluzione di Maidan, animata dal crescente nazionalismo ucraino e dall’intervento di baltici e americani, ha sconvolto tale assetto.

Allora Kiev rimodulò la propria postura verso l’Europa, mentre il Cremlino annetteva la Crimea e impugnava i territori di Luhansk e Donetsk, nel tentativo di correre ai ripari. Restava in Russia la consapevolezza d’aver subìto un drammatico rovescio, umiliazione personale per Vladimir Putin, terrorizzato all’idea di finire nei libri di storia patria come colui che perse la culla della Rus’.

Mosca e Pechino

Impossibile convivere a lungo con tale realtà. Ne è derivato l’attuale tentativo di recupero, assai più complesso di quello realizzato in Georgia, (parzialmente) strappata all’occidente nel 2008. Perseguito in questa fase per molteplici ragioni, fattori dell’operazione in corso.

Anzitutto la percepita distrazione degli Stati Uniti. Nell’interpretazione del Cremlino oggi Washington necessita contemporaneamente di guardarsi dentro e nell’Indopacifico, senza dedicare massimo impegno al fronte europeo.

L’assalto al Campidoglio dello scorso anno ha persuaso gli analisti russi che la società d’oltreoceano è assai divisa sul futuro dell’impero, con un clivage che va ampliandosi tra gli americani degli stati interni e quelli che vivono sulle coste, ovvero tra quelli tendenzialmente stanchi di battersi nel mondo per l’egemonia e quelli tendenti al post-storicismo (quasi) europeo. Mentre sono chiamati a contenere dal mare la Cina, principale sfidante per l’egemonia planetaria. A fronte di minori risorse da spendere in Europa, contesto decisivo ma già ampiamente nella disponibilità del Pentagono.

Alla fine del 2021 tale congiuntura ha persuaso Mosca di perseguire la sospensione del contenimento subito. Nell’interpretazione di Putin, stanchi e ossessionati dalla repubblica popolare, gli americani dovrebbero concedere ampia tregua alla Russia, per scongiurare eventuali rogne in Europa, per creare distanza tra Mosca e Pechino. Peraltro incontrando così la volontà dei russi di smarcarsi dai cinesi, razzisticamente ritenuti troppo distanti dal proprio canone per elevarli ad alleati. «Con la sua pressione l’America ci sta spingendo nelle braccia della Repubblica popolare», ha spiegato agli inizi della crisi l’ambasciatore russo alle Nazioni unite Andrey Kelin. Lo scorso gennaio tali persuasioni hanno prodotto l’ammassamento di centinaia di migliaia di soldati russi al confine bielo-ucraino.

Le richieste

Notevoli le richieste avanzate da Putin. Neutralità sine die di Kiev, abbandono tramite revisione costituzionale dell’adesione alla Nato, chiusura dei siti missilistici dell’alleanza atlantica presenti in Romania e in costruzione in Polonia, interruzione delle sanzioni contro la Russia. Nelle parole di Emmanuel Macron, «Putin persegue un nuovo assetto securitario per l’Europa».

Possibilmente vergato in un trattato dal valore internazionale, che nell’idea del presidente russo dovrebbe schermare la Russia dal presunto tradimento di Bush padre, accusato d’aver condotto la Nato oltre l’Oder nonostante promesse in senso contrario.

Allora il Cremino ha ridotto la quantità di gas posizionato sul cosiddetto mercato spot, trascendente il minimo di approvvigionamento consentito dagli accordi con gli stati clienti, per colpire l’opinione pubblica dei paesi europei con un aumento netto del prezzo del gas.

E ha cominciato a brandire l’opzione militare per costringere gli interlocutori al tavolo negoziale, per convincerli della serietà delle sue intenzioni. Non per usarla necessariamente, almeno non nell’immediato. Perché se invadere il vicino è tecnicamente semplice, rimanervi sarebbe assai più complicato, specie negli oblast occidentali ostili alla Russia.

Il nemico in Asia

A differenza di quanto capitato negli anni scorsi, il presidente russo ha immediatamente incontrato la disponibilità americana a trattare. Per le cause riconosciute dagli analisti moscoviti. E non solo.

L’intelligence d’oltreoceano è meno sicura di un tempo della funzionalità del contenimento senza soluzione di continuità, tattica intrinsecamente cinetica pure se apparentemente immobile, capace di condurre in guerra il soggetto che la imbastisce, anche quando l’obiettivo è stato centrato.

Specie la Cia ritiene soddisfacente l’attuale condizione della Russia, costretta in un angolo nel suo estero vicino. Mentre l’aver appaltato negli anni a polacchi, baltici e romeni la gestione quotidiana ha condotto tale contenimento oltre la sua utilità, fino a lambire la frontiera della Federazione russa, avanzamento pleonastico che rischia di impantanare gli Stati Uniti anziché aumentarne il controllo sull’Europa.

Nell’inedita valutazione dell’intelligence americana: pure allentando l’ostilità, si può conservare Mosca saldamente distante dal resto del continente. Punto dirimente. Per la prima volta dalla fine della Guerra fredda, Washington sembrava vicina a risolvere parzialmente l’asimmetria strategica del nostro tempo.

Ovvero l’esistenza in Asia e non in Europa del suo principale nemico. Con la conseguenza di doversi concentrare contemporaneamente su entrambi i continenti, con l’inevitabile distorsione di risorse che questo comporta.

Anziché dedicarsi soltanto all’Europa come capitava ai tempi della Guerra fredda, quando l’Unione sovietica e il principale fronte coincidevano, con gli altri continenti deputati a teatri di sfogo per le tensioni tra superpotenze. Maggiore semplicità dello scenario che nel 1971 consentì a Henry Kissinger di aprire alla Cina maoista per staccarla dai soviet, senza preoccuparsi dell’Asia, quadrante ampiamente secondario. Da anni Washington teme di perdere il totale controllo dell’Europa, qualora la Russia fosse affrancata dello stigma del cattivo, qualora fosse libera di agire per la penisola.

Fermamente collocate nel proprio campo tutte le nazioni dell’Europa orientale ad esclusione di Bielorussia, Ucraina e Moldavia, parte degli apparati immaginava di ridurre (almeno parzialmente) l’asfissia imposta a Mosca. Rinviando sine die l’adesione alla Nato dell’Ucraina, rivedendo la propria postura dialettica. Questo produsse la diffusione a fine gennaio di un rapporto sulla cosiddetta sindrome de l’Avana, i disturbi psichici e fisici registrati dai diplomatici americani in numerose parti del mondo. Dopo aver accusato a lungo la Russia d’essere l’unica potenza al modo in possesso degli strumenti a onde che causerebbero la malattia, a sorpresa Langley la definiva puramente naturale.

Altre agenzie restavano scettiche sulla questione. Su tutte, il Pentagono tuttora contrario a ogni apertura. Ma per la prima volta il parziale disgelo era al centro del dibattito. Non la fine dell’inimicizia, ma un suo stemperamento.

Con la Casa Bianca incline all’apertura, come capitato con ogni presidente post-Guerra fredda, da Bush padre a Obama, fino a Trump. Gli stessi annunci di un’invasione imminente dell’Ucraina da parte russa, con tanto di data fittizia (16 febbraio) per l’inizio delle operazioni, servivano a sostanziare la trattativa in corso e a fornire una narrazione utile alla Casa Bianca per vendere l’eventuale compromesso all’opinione pubblica domestica.

Giacché segnalavano che gli americani non avrebbero difeso l’Ucraina dall’assalto russo, anzi contestualmente annunciavano il ritiro degli addestratori presenti sul territorio e il trasferimento del personale diplomatico a Leopoli, nella Galizia anti-russa, comunicando al Cremlino di non considerare l’Ucraina parte della propria sfera d’influenza.

In caso di eventuale compromesso questi avrebbero consentito a Biden di attribuirsi il merito d’aver scongiurato un’invasione già decisa, presentandosi come risoluto negoziatore in patria. Ruolo svolto soprattutto dall’intelligence militare, scambiata alle nostre latitudini per un’agenzia di stampa, con i media italiani (e non solo) convinti che i suoi dispacci fossero resoconti di cronaca e non la deontologica manipolazione della realtà.

La guerra imminente

Frequente è stato l’uso dell’aggettivo “imminente” nel descrivere la campagna militare russa, senza curarsi delle proteste del governo ucraino, preoccupato dalla volontà americana di drammatizzare la situazione – peraltro in ucraino il corrispettivo di imminente segnala un evento inevitabile, drammatico presagio nella crisi corrente. Addirittura agli inizi dell’escalation Biden aveva scolpito come implicitamente tollerabile una piccola incursione russa in territorio ucraino, prima di ritrattare per mero protocollo.

A gestire nel ruolo di principale mediatore Emmanuel Macron, inviato naturale tra i due contendenti per lo storico complesso di inferiorità degli americani verso i francesi e per la natura monarchica della presidenza d’oltralpe, l’istituzione dotata di maggiori potere in occidente, dunque avvezza a occuparsi dei massimi sistemi. Con tanto di telefonate in piena notte dall’Eliseo al Cremlino.

Durante i colloqui Macron ha frequentemente proposto la finlandizzazione dell’Ucraina, ovvero la sua neutralità de facto, soluzione caldeggiata spesso anche in passato, mediamente gradita ai russi. Prima che gli Stati Uniti rispondessero in forma scritta alle pretese del Cremlino, proponendo nuovi incontri tra Nato e Russia e una complessa negoziazione dello stanziamento delle batterie missilistiche. Rifiutandosi di chiudere definitivamente all’Ucraina.

La decisione

Non era abbastanza per Mosca, da quel momento persuasa che non avrebbe ottenuto mutamenti sostanziali. Pronta a consegnare al quotidiano El Pais la risposta di Washington, per mostrarsi come parte lesa nella vicenda, mentre la Casa Bianca stanziava circa 7mila soldati americani nei paesi della Nato confinanti con l’Ucraina.

Insoddisfatto dalle promesse statunitensi, allora Vladimir Putin ha abbandonato la massima revisione geopolitica, impossibile da centrare. Per concentrarsi su obiettivi minori più concreti, perseguibili con l’uso della forza.

Così il 21 febbraio il Cremlino ha siglato il riconoscimento delle repubbliche ribelli sedicenti del Donbass, inviando in loco propri peacekeeper. Deluso dal minore cabotaggio della proposta americana, Putin ha scelto di attaccare militarmente, di imporre i suoi termini con la forza. Decisione all’improvviso, come dimostrato dalla lunghezza della trattativa con l’occidente, circa tre mesi, che ha spogliato del cruciale effetto sorpresa la campagna militare. Anche contro la volontà di alcuni dei suoi più stretti collaboratori.

Tra questi il capo dell’intelligence, Sergei Naryshkin, umiliato durante una cruciale riunione del consiglio di sicurezza nazionale, e l’abilissimo ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, giunto a impermalosirsi per la ritrosia protocollare del ministro Luigi Di Maio a incontrarlo, quasi a chiedere all’occidente di aiutarlo sul piano diplomatico. Ieri mattina le forze armate russe hanno cominciato un attacco contro l’intero territorio ucraino, dal cielo e da terra. Con la giustificazione posticcia di dover denazificare il paese, ovvero piegarlo alla propria volontà. Entrando anche dalla Bielorussia, oltre che dal Donbass. Paralizzando le istallazioni militari, i centri nevralgici, bloccando l’accesso al mare.

Ora il punto sarà per il Cremlino vincere la guerra strategica. Senza impantanarsi nelle pianure locali, senza compattare il fronte occidentale contro di sé.

Impossibile sarebbe rimanere sine die sul territorio. Per assenza degli effettivi militari, per complessità del contesto, per inevitabile sprofondare della narrazione russa, dopo che Putin era riuscito a trasformare la Russia nella vittima delle manovre occhiute dei nemici.

Qualora le operazioni dovessero protrarsi per mesi, con una guerra a bassa intensità o più grave, per Mosca sarebbe complesso anche conservare il fronte interno, inevitabilmente fratturato dagli eventi.

Riscrivere la storia

La prova militare in corso potrebbe rivelarsi sterile nel medio lungo periodo, giacché quanto realizzato inevitabilmente intensificherà il sentimento nazionalistico ucraino in funzione antirussa, una tendenza che in futuro dovrebbe allontanare la stessa Kiev da Mosca.

Processo simile ai fatti di Georgia, paese che 14 anni dopo l’invasione resta lontano dalla Nato e dall’occidente ma tuttora animato dalla volontà di ripensare la propria postura strategica, mai fissa su quella del Cremlino. Le vibrazioni culturali ed etniche in Ucraina, in atto da molti anni, potrebbero aver trovato una ragione per resistere, per cristallizzarsi.

Certo, Putin potrebbe riscrivere la storiografia nazionale ponendosi come l’eroe che recuperò il luogo dove il principe Vladimiro prescisse il battesimo ai sudditi. Abbastanza per concludere la propria carriera in maniera soddisfacente. Ma tra qualche tempo la Russia rischia di affrontare i medesimi problemi, al cospetto di vicini e nemici ormai distanti dalle sue pretese, alle prese con un estero vicino temporaneamente sedato. Mentre sotto cova il fuoco della rivincita.

 

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