Sulla riforma del Patto di stabilità si decide il futuro dell’economia italiana, oltre che dell’Europa. Per questo, il dilettantismo di cui sta dando prova il governo Meloni è quanto di più nocivo potevamo temere per il nostro interesse nazionale. E i risultati purtroppo sono già evidenti.

La partita chiave si è giocata questa estate, nel braccio di ferro tra la Francia e la Germania. La Francia, e con lei la Spagna e altri stati con un debito alto, chiedeva, molto ragionevolmente, l’abbandono di parametri automatici uguali per tutti, in favore di un approccio più flessibile, pragmatico, che tenesse conto delle peculiarità di ciascun paese.

I cosiddetti frugali, capeggiati dalla Germania, chiedevano invece il ritorno alle regole rigide e uniformi del passato, solo un po’ meno irrealistiche. L’Italia avrebbe avuto tutto l’interesse a formare un blocco compatto con la Francia, la Spagna e gli altri paesi mediterranei: proprio come aveva fatto, con successo, nel 2020, all’epoca della trattativa sul Pnrr, quando Francia, Italia e Spagna insieme avevano convinto la Germania a concedere addirittura gli eurobond.

Dov’era invece adesso il nostro governo? Aveva elaborato una posizione del tutto autonoma, cioè isolata: accettava il ritorno di regole uguali per tutti, ma chiedeva lo scorporo, dal calcolo dei parametri per debito e deficit, delle spese per la transizione energetica e digitale e per la difesa.

Intanto, va detto, queste spese farebbero comunque debito, e deficit: l’Italia dovrebbe comunque emettere titoli per finanziarle, da collocare sul mercato (semmai, sarebbe stato ragionevole chiedere una spesa comune, europea, per difesa, ambiente e digitale, con evidenti risparmi sui costi e guadagni di efficienza).

Ma poi, era una posizione che spezzava l’alleanza con la Francia e la Spagna, i nostri veri e importanti alleati, con il risultato di indebolire tutto il fronte di chi si oppone all’austerità. L’esito non stupisce: ha vinto chi vuole il ritorno alle regole uguali per tutti, con parametri fissi e automatici; e con conseguenze molto negative per i paesi più fragili, specie in una congiuntura come questa di bassa crescita.

Molta confusione

Dopo aver sbagliato l’approccio di fondo, il governo e la maggioranza hanno aggiunto molta confusione, spesso solo a fini di propaganda interna. C’è chi puntava, vana illusione, a far restare in vigore la sospensione delle regole anche per il 2024. Altri l’hanno buttata nella polemica strumentale, dando la colpa al commissario Paolo Gentiloni, mentre le responsabilità, come spiegato, sono del nostro governo.

Altri infine, fra cui lo stesso ministro Giancarlo Giorgetti, hanno ventilato la possibilità di non firmare il nuovo patto: un’ipotesi insostenibile, intanto perché comporterebbe il ritorno delle vecchie regole, peggiori delle nuove, secondo perché aprirebbe una conflittualità gravissima con l’Unione, foriera di una vera e propria crisi del debito che manderebbe in default la nostra economia.

A questo punto, non resta che sperare nel male minore. Torneranno le regole di austerità, benché più attenuate (dovremo tagliare il debito dell’1 per cento all’anno fin quando resterà sopra il 90 per cento del Pil, mantenere il deficit almeno sotto il 3 per cento); ma potremmo forse ottenere qualche attenuante, un po’ di flessibilità anche informale, dettata se non altro dal buon senso. È veramente poco, rispetto alla situazione che stiamo vivendo e a quello che sarebbe necessario. Ma di questa ipoteca pesante sulla nostra economia, e sulle vite dei cittadini, il governo Meloni è l’indiretto responsabile.

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