Grande assente nel già povero dibattito di questa campagna elettorale sembra essere quella che un tempo si chiamava società civile. Di questo complesso e variegato insieme di relazioni economiche, sociali, culturali e associative non parlano, né come soggetto né come oggetto politico, entrambi i blocchi contrapposti, alimentando il rischio di una politica che si trova sempre più a voler (illusoriamente) rappresentare il singolo individuo e non le realtà sociali che pur tengono vivo il Paese.

Una distanza che ha una genesi lunga, ma che parrebbe essere accentuata dal clima emergenziale degli ultimi due anni, che ha da un lato rafforzato il ruolo dello stato e dall’altro lo ha issato quasi a unica fonte di appiglio davanti a tutte le criticità che stavano e stanno maturando.

E così se prendiamo i programmi del blocco progressista vediamo come lo stato sia al centro della maggior parte delle politiche (pensiamo a tassazione, pensioni, salario minimo), ma allo stesso tempo come questo sia l’oggetto di riferimento anche del blocco conservatore (sempre pensioni, sicurezza, fino al servizio militare recentemente evocato).

Non che il ruolo che si intende dare allo stato sia il medesimo, sia chiaro. Nel primo caso appare come il soggetto che solo può garantire la riduzione delle disuguaglianze sociali, nel secondo come soggetto che può garantire sicurezza, stabilità e ordine, lasciando in larga parte una narrazione liberista che magari resta nei fatti, ma meno nei comizi. “Più stato e meno individuo”, si direbbe.

Spinte opposte

Non manca però una spinta opposta, che si può riassumere in “più individuo e meno stato” che caratterizza entrambi gli schieramenti in direzioni opposte e che riguarda principalmente la questione dei diritti. Da un lato chi vorrebbe uno stato che allargasse i diritti civili, dall’altro chi ritiene che lo stato debba invece conservarli, non entrando in questa partita o, se proprio deve farlo, per mantenere lo status quo (se non per limitarlo ulteriormente).

In questo scenario, che poco risponde alle narrazioni degli ultimi vent’anni sulla contrapposizione destra e sinistra fondata sulla dialettica individuo-stato, ci sono due grandi assenti. Il primo è il tema dell’effettiva autonomia degli stati nazionali rispetto alle politiche economiche e sociali, di cui però non discuteremo qui. Il secondo è appunto la società, composta da associazioni, comunità locali, parti sociali.

Realtà che vivono nel paradosso di aver contribuito ampiamente alla tenuta del paese negli ultimi due anni (pensiamo al ruolo centrale delle relazioni industriali nella tenuta del tessuto produttivo durante la pandemia) ma di essere allo stesso tempo marginalizzate dal discorso politico, sia come destinatarie di politiche abilitanti sia come interlocutore privilegiato per comprendere i bisogni del paese. In questo hanno sicuramente diverse colpe. A partire dalla tendenza, soprattutto a livello delle strutture centrali, di lavorare per una difesa corporativa che cozza spesso con quella del bene comune.

Ma ciò non toglie che è difficile pensare di implementare politiche economiche e sociali, in un Paese variegato come l’Italia, senza un ampio coinvolgimento di questa componente centrale. Coinvolgimento che va dal ruolo della contrattazione collettiva nella modernizzazione dei processi produttivi e nella conciliazione di tutele e produttività alle reti locali in grado di lavorare per intervenire sulle nuove marginalità (migranti, giovani ecc.) passando per il fondamentale ruolo dei territori per l’implementazione e declinazione concreta delle politiche nazionali, pensiamo soltanto al Pnrr.

Confermerebbe, peraltro, una certa miopia (o malafede da campagna elettorale) in chi pensa di poter governare solo a suon di decreti e leggi, senza il coinvolgimento delle diverse anime della società e ignorando il ruolo centrale che già hanno nel tener legato, pur con le criticità che ci sono, il tessuto sociale del Paese. Il costo che rischiamo di pagare è la frustrazione di quelle reti sociali e civiche, già indebolite da un individualismo diffuso e in parte cresciuto durante i mesi di isolamento sociale, la cui venuta a meno sarebbe un danno incalcolabile.

Restiamo quindi in fiduciosa attesa che qualche forza politica si ponga come soggetto che non pretenda solo di governare centralmente le dinamiche sociali ed economiche ma che promuova una idea di uno stato che sia “capacitatore” della società, ponendosi a suo servizio pur all’interno di regole comuni, ma lasciando spazio di azione, liberando così risorse che è utopico pensare di canalizzare in un solo grande Leviatano. 

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