Con un discorso alla nazione pronunciato alle sei del mattino ora di Mosca, il presidente Vladimir Putin ha annunciato di avviare una “operazione militare speciale” per demilitarizzare e de-nazificare l’Ucraina, avvertendo che chiunque porrà “ostacoli” a questo piano dovrà tener conto che “la Russia risponderà con delle conseguenze mai viste prima”.

Una decisione che ha accolto di sorpresa, come ogni attacco militare, l’intera opinione pubblica mondiale, ma non l’intelligence americana che, questa volta, aveva previsto un’invasione nel giro di quarantotto ore.

È lecito, quindi, porsi alcune domande: era inevitabile? Era prevedibile? Siamo in presenza di un folle in preda ad un delirio di onnipotenza?

Nelle scorse settimane molti analisti hanno sostenuto che un’invasione dell’intero territorio ucraino non era un’ipotesi attendibile perché avrebbe creato danni all’economia e alla società russa.

Che si tratti di un legittimo rifiuto psicologico all’idea di una guerra o di una affrettata analisi, è pur vero che, nell’ultima settimana, abbiamo assistito ad alcune decisioni politiche di Putin che hanno ribaltato la questione. Quali erano questi indizi?

Tutti gli indizi

In primo luogo, la proposta di legge sul riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, avanzata dal partito comunista della Federazione russa e votata dalla grande maggioranza dei deputati della Duma.

Vi è poi stato l’incontro, diffuso nei media, del Consiglio di sicurezza russo nel quale Putin ha chiesto il parere sul “caso Donbass” ai ministri (Interni, Esteri e Difesa) e al capo dei servizi segreti che è stato “umiliato” nell’imbarazzante botta e risposta con il presidente russo.

Ma il segnale più indicativo, che ha fatto comprendere quanto l’intervento militare in Ucraina fosse un’opzione concreta, è stato il discorso di Putin alla nazione di tre giorni fa.

Abbiamo già scritto in questo giornale come Putin abbia calcolato il periodo nel quale rivendicare il diritto di porre fine all’espansione della Nato e avviare una difficile trattativa diplomatica con gli Usa e l’Ue.

Si tratta di quella “tempesta perfetta”, caratterizzata da una debolezza politica domestica del presidente americano, da un’Ue divisa sul tipo di sanzioni da applicare a causa della dipendenza energetica dalla Russia, dalla transizione in Germania “post Merkel”, dalla campagna presidenziale francese e dalle nefaste conseguenze della pandemia sul piano economico e sociale.

Una situazione di “debolezza” da cui trarre un vantaggio per ridefinire la sicurezza in Europa e, soprattutto, il nuovo ordine mondiale.

Infine, la Duma ha ratificato gli accordi del presidente Putin con le repubbliche separatiste, consentendo, quindi, di inviare truppe, creare basi militari per difendere il territorio del Donbass sulla base anche di una richiesta scritta pervenuta dal leader, Denis Pushilin, dell’autoproclamata Repubblica di Donetsk di cooperazione e mutuo soccorso.

Evitare l’escalation 

Se l’accelerazione dell’ultima settimana, quindi, ci ha fornito elementi per capire che il presidente russo non si sarebbe fermato, dobbiamo ritenere che sarebbe stato difficile, se non impossibile, evitare l’escalation militare. D’altronde, la Nato era disposta ad ascoltare le “preoccupazioni russe”, ma non a cedere a compromessi sui suoi “principi fondamentali”.

Su questa ferma convinzione, è stata creata un’operazione ad hoc del Cremlino per cominciare ad alzare i toni e trovare giustificazioni, anche sul piano internazionale, per poter intervenire in maniera più diretta sull’Ucraina.

Nel corso degli anni Putin ha dimostrato di essere un valido tattico, ma la posta in gioco questa volta è  alta e non priva di rischi. Non si può escludere che ci troviamo di fronte all’ennesimo caso storico di un autocrate che ha perso il senno, ma se cerchiamo di valutare razionalmente tutti i passaggi che sono avvenuti in questi mesi, riscontriamo una cinica, ma lucida logica nel presidente Putin. L’obiettivo finale è la destituzione del presidente ucraino Zelensky.

Nel frattempo, i sondaggi rilevano un aumento di sei punti percentuali della popolarità del presidente russo negli ultimi quattro mesi, (69 per cento) e il 60 per cento degli intervistati attribuisce la responsabilità di quanto sta accadendo alla Nato e agli Stati Uniti. 

Prima del riconoscimento dell’indipendenza, secondo la rilevazione del Levada Center, il 33 per cento dei rispondenti riteneva che le due repubbliche dovessero diventare stati indipendenti, per il 25 per cento parte della Russia e per il 26 per cento rimanere parte dell’Ucraina.

La propaganda mediatica russa continua a plasmare l’opinione pubblica russa che sostiene, al momento, le decisioni del Cremlino. Tuttavia, per mantenere questa “passiva” reazione di una parte dell’elettorato russo, è opportuno che Putin raggiunga al più presto l’obiettivo per evitare di danneggiare economicamente la popolazione russa.

Al contrario, il presidente Putin avrebbe messo in pericolo anche la stabilità politica della Russia.

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