È stata una settimana faticosa per l’estrema destra europea. Poco dopo la strigliata di Ursula von der Leyen a Viktor Orbán per le leggi omotransfobiche ungheresi, a Bruxelles è stata approvata una storica relazione in difesa del diritto delle donne all’aborto sicuro e legale, che per la prima volta viene affermato a livello europeo come diritto umano.

La relazione invita i singoli stati a garantire un’educazione sessuale scientificamente accurata fin dalla scuola primaria, e a rimuovere gli ostacoli all’accesso alla contraccezione e all’aborto, in primo luogo l’obiezione di coscienza – ancora prevista da oltre venti paesi – che viene qualificata come “negazione di assistenza medica”, violazione di un diritto umano e violenza di genere. L’obiettivo principale della relazione approvata giovedì è che ogni ragazza e ogni donna residente nell’Unione europea possa contare su servizi sanitari simili in ogni paese, senza discriminazioni di genere e senza dover subire forme di violenza né ricorrere a pratiche clandestine o viaggi nei paesi confinanti, come purtroppo avviene ancora.

La maggioranza che ha votato questa relazione rivela un’evoluzione significativa delle posizioni centriste sui diritti delle donne. I cosiddetti “pro-life” non hanno perso neanche questa volta l’occasione per riproporre i loro cavalli di battaglia meno sobri sul tema, come il paragone dell’aborto con la Shoah e l’invio intimidatorio di feti di plastica ai parlamentari europei “pro-choice”, ma questa volta hanno mantenuto la presa solo sull’estrema destra (tra gli italiani, solo Lega e Fratelli d’Italia hanno espresso voto contrario). Nel 2013 la “relazione Estrela”, molto simile a quella approvata giovedì, era naufragata per il voto contrario non solo dei popolari, ma persino del centrosinistra.

Otto anni dopo, una maggioranza di socialisti e democratici, Verdi, liberaldemocratici e popolari ha invece permesso di affermare una nuova volontà europea di proteggere e promuovere i diritti alla salute delle donne che nel frattempo hanno subito duri attacchi.

L’autonomia dei paesi

I singoli stati europei hanno avuto e continueranno ad avere piena competenza su come tutelare il diritto alla salute sessuale e riproduttiva femminile, con risultati non sempre virtuosi. Se l’Irlanda è riuscita a legalizzare l’aborto con un referendum nel 2018, alcuni paesi hanno infatti continuato indisturbati a lasciare completamente nella clandestinità l’interruzione di gravidanza – come nel caso di Malta – o a introdurre restrizioni sempre più rigide, come è avvenuto recentemente in Polonia, dove l’Ivg è consentita solo in caso di stupro o di pericolo per la vita della madre.

La “relazione Matić” approvata il 24 giugno è una risposta frontale a questi casi di “violazione dei diritti umani e dei valori democratici europei”. La relazione richiede però avanzamenti a tutti i paesi, anche in reazione a un arretramento generale della salute di genere durante la crisi del Covid-19. Il diritto all’aborto viene infatti ancorato a una visione organica del diritto alla salute, che va dalla contraccezione all’educazione sessuale – anch’essa criminalizzata nel recente pacchetto di leggi polacche –, fino alla promozione degli screening per i tumori e all’azzeramento dell’Iva sugli assorbenti.

Viene inoltre ampiamente tematizzata la violenza ginecologica e ostetrica, sulla quale solo recentemente si stanno raccogliendo dati e della quale si sta prendendo coscienza. Alcuni paesi hanno già iniziato ad aggiornare le proprie leggi in questa direzione. In Francia nel 2015, nel quarantesimo anniversario della legge Veil, che dal 1975 disciplina l’Ivg e di cui la nostra 194 è quasi la traduzione letterale, è stata colta l’occasione per rinforzarne l’effettività: per tutelare la scelta informata della donna sono state introdotte sanzioni nei confronti di chi diffonde false informazioni mediche online, ed è stata inaugurata una linea telefonica dove ottenere informazioni nel rispetto della riservatezza, mentre per facilitare l’accesso all’aborto farmacologico è stata soppressa la settimana di riflessione tra la richiesta di Ivg e la sua realizzazione.

Quest’ultima clausola, oggi quasi incomprensibile e che tuttavia rimane in vigore anche in Italia, sembra presupporre che la donna che firma la propria richiesta di Ivg non sia pienamente cosciente della propria scelta e sia quindi tenuta a riconsiderare la propria decisione per sette giorni. Dal 1978 anche la legge italiana è però stata riveduta su alcuni punti, in particolare per aggiornarsi rispetto alle nuove modalità farmacologiche e di contraccezione. L’estate scorsa, forse anche per l’esigenza di ridurre l’affollamento dei reparti di ginecologia durante la crisi del Covid-19, è stato facilitato l’accesso alla pillola abortiva Ru486, ormai somministrabile senza ricovero e fino alla nona settimana di gravidanza – nonostante il tentativo di alcune Regioni di “obiettare” anche a questa procedura.

Il principale ostacolo giuridico all’applicazione della 194 rimane proprio l’obiezione di coscienza (pardon: la “negazione dell’accesso all’assistenza medica sulla base di convinzioni personali”), che raggiunge percentuali vertiginose in alcuni ospedali.

Mentre i medici che hanno rifiutato il vaccino anti Covid sono stati rapidamente sanzionati per incompatibilità con la salute dei pazienti, ancora 43 anni dopo l’introduzione della legge sull’aborto è ampiamente tollerato che chi ha convinzioni anti-abortiste possa intraprendere la carriera di ginecologo. Scossa dal caso della Polonia, l’Europa ha mostrato di rendersi conto del pericolo che una simile spinta illiberale rappresenta per la vita delle donne e delle ragazze, e si è data finalmente l’occasione per chiedere a tutti i suoi stati membri di alzare lo standard della salute di genere, colmando in positivo la disomogeneità tra le legislazioni nazionali. Anche l’Italia ora ha uno strumento politico in più per rimuovere ciò che ostacola l’accesso pratico a un diritto che le donne hanno giuridicamente ottenuto da oltre quarant’anni.

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