«Bisogna pensare un Partito della nazione». Così Alfredo Reichlin, a lungo dirigente comunista e nume per una sinistra in transizione perenne, ammoniva le leadership del Partito democratico. La formula era figlia di una concezione di stato e paese fondata su grandi forze e relative culture ben piantate nella società. L’opposto di una rappresentanza disgregata in rivoli e affluenti, col primato di particolarismi, corporazioni e una mal pensata autonomia territoriale rivestita di spiccio federalismo. Pensieri datati, uno può pensare. Forse, però, meno di quanto appare e la cronaca degli ultimi giorni ce li restituisce con un tratto di pertinenza.

Prendiamo l’annuncio del più mediatico e imitato presidente di regione convinto di avere tra le sue prerogative la potestà di decidere in proprio tempistica e destinatari del piano di vaccinazione, in dissenso, s’intende, da quello nazionalmente convenuto. Nel caso specifico la tesi di Vincenzo De Luca scansa il vincolo dell’età con l’argomento che non può sopravanzare i bisogni dell’economia. Sottotesto, perché va bene non morire di virus, ma neppure si deve crepare di fame. Della serie (traduco a mio modo), «voi signori al governo, e Lei, generale addetto alle provvigioni, fate pure il vostro, ma non impicciatevi oltre misura dei fatti di qui perché quel che serve ai campani lo sappiamo noi». A questo punto la domanda, semplice semplice, è una: si può fare? La risposta, scontata pure quella, è “No”. Nel pieno della pandemia, con anziani senza vaccino, scuole aperte a singhiozzo e terapie intensive sotto pressione, la sola cosa che una nazione e uno stato non possono fare è fischiare il rompete le righe lasciando che ciascuno decida da sé come organizzare il contrasto al contagio, riaprire le attività o garantire la didattica in presenza.

Non siamo un paese federale

Il nodo vero, però, è che quel genere di uscite – ne ho citata una, ma l’elenco sarebbe lungo e soprattutto bipartisan – nasconde un retaggio più antico e lascia affiorare l’eredità di un grande paese, il nostro, dilatato e dilaniato per secoli in mille campanili tanto prossimi nello spazio quanto distanti nel resto. L’approdo a un regionalismo senza grandi radici (se uno nomina l’Italia dei comuni almeno si capisce di cosa parla!) si è risolto nei decenni ultimi in un fallimento dell’assetto dello stato, con una moltiplicazione di burocrazie e una catena istituzionale di direzione e strategia collassata nel bel mezzo della peggiore emergenza sanitaria dal dopoguerra a noi. Il che, per chiarezza, non implica porre tutte le regioni sullo stesso piano perché a tragedia finita, speriamo presto, sarà ben giusto distinguere tra chi ha seguito protocolli e regole ottenendo risultati migliori e chi in nome di una presunta “autonomia” ha costretto i cittadini a sacrifici maggiori.

Ciò che rimane dell’intera vicenda, quindi, è l’obbligo a riscrivere il copione. Perché una cosa merita rammentarla: non siamo un paese che ha scelto un ordinamento federale. Magari sarà giusto farlo, ma poiché non è ancora così nessuno ha diritto a comportarsi come lo fossimo già. Tanto meno è una licenza da concedere alla sinistra, a meno di strapparne le radici che, per inciso, non affondano nel localismo, ma nell’ambizione a riconoscersi in una identità e un destino comuni. Allora d’accordo, non sarà ancora tempo per quel «Partito della nazione» evocato da Reichlin, però non sia quella una scusa per regredire ai riti delle signorie. Come dicevano una volta, “est modus in rebus”: dall’Alpi alle Piramidi, da Firenze a Salerno.

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