E così si chiude una delle più bizzarre polemiche del giornalismo politico italiano recente. Nel dossier dell’intelligence sulle attività di disinformazione russa non ci sono le informazioni di cui aveva parlato il Corriere della Sera nel contestato articolo del 5 giugno (contestato per le foto dei “putiniani” più che per il contenuto) dedicato proprio a quel dossier.

La polemica era partita storta: il Corriere aveva pubblicato un articolo molto vago e confuso, con evidenti forzature. Il “materiale raccolto dall’intelligence” usato per una “indagine del Copasir” portava le giornaliste autrici del pezzo a raccontare di una “rete” di putiniani che “si attiva nei momenti chiave del conflitto”.

Esiste del materiale dell’intelligence, esiste una indagine del Copasir, ed esiste un folto gruppo di putiniani italiani le cui opinioni vengono quasi certamente amplificate da interventi digitali di Mosca. Ma le tre cose non sono legate.

Il dossier dell’intelligence, de-secretato dal sottosegretario con delega Franco Gabrielli, è soltanto una descrizione dei temi e delle fake news rilanciate da account e testate simpatizzanti di Putin.

Il Copasir si sta occupando di social media e dell’infowar del Cremlino, per capire come si trasformi la discussione pubblica in un’arma.

E ci sono tanti personaggi – da Alessandro Orsini a Giorgio Bianchi – che vivono un momento di insperata popolarità social e televisiva grazie alle loro opinioni filo-russe, assai poco censurate ma anzi contese da giornali, tv e teatri.

Tra le tre cose non c’è il nesso cui pareva alludere il Corriere e che ha indignato tanti opinionisti e intellettuali che già temevano una qualche forma di persecuzione da parte dei servizi segreti italiani dei presunti esponenti della “rete” dei putiniani (che nella titolazione del Corriere diventava “Rete” con la maiuscola, cioè Internet, giusto per confondere ulteriormente). 

Cosa sappiamo

L’articolo del Corriere non era preciso, le foto lo rendevano allusivo, ma anche le polemiche successive erano assolutamente pretestuose e ingenue, tanto che nessuno degli indignati è mai stato in grado di articolare di cosa erano accusati i servizi segreti. Così come il Corriere non era in grado di spiegare in che senso i “putiniani” fossero una rete, invece che un insieme di esibizionisti, magari a volte in buona fede.

Sappiamo che la Russia di Vladimir Putin da anni cerca di intossicare il dibattito pubblico dei paesi obiettivo, con la diffusione di notizie false o verità artefatte che poi vengono amplificate da opinionisti amici che guadagnano rilevanza social grazie a una rete di bot (account fasulli, gestiti dalla Russia).

Chi, nella polemica sull’articolo del Corriere, nega l’esistenza di attività di disinformazione russa è semplicemente poco informato.

Ma neppure l’inchiesta americana culminata nel rapporto Mueller è riuscita a dimostrare un coordinamento esplicito tra Putin e la campagna elettorale di Donald Trump nel 2016, che per il Congresso americano è stata ufficialmente beneficiaria inconsapevole di attività di supporto e hackeraggio russa a sostegno della sua candidatura contro Hillary Clinton.

Quasi certamente adesso sta succedendo qualcosa di simile, le strutture russe di infowar sanno come rendere più virali i contenuti funzionali alla loro propaganda. Ma forse, nel caso dell’Italia, non hanno neppure bisogno di impegnarsi tanto.

Giornali e politica sono in grado di generare caos mediatico e istituzionale da soli anche senza supporti esterni. Con un dibattito pubblico di questo livello, che bisogno c’è di scatenare i professionisti della disinformazione? Ci disinformiamo benissimo da soli.

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