Dopo un anno di fenomeno Måneskin succede che, con tutta la simpatia, un po’ ti scocci di notare come sembrino gli unici musicisti pop italiani autorizzati ad avere accesso a una platea internazionale.

E siccome la Storia conta – anche quella delle Guerre Puniche conta – scrivi un articolo per raccontare la vicenda di un assassinio rituale. Un cold case della metà degli anni ‘50. La vittima è la musica popolare italiana alla sua prima possibilità discografica. Il testimone è il più grande musicologo del ‘900, Alan Lomax. I documenti sono poco noti. 

È una vicenda passata che spiega un atteggiamento attuale: il provincialismo del pop italiano.

Provincialismo significa sentirsi “provincia”: periferici, inadeguati e cercare conferme in un centro che dovrebbe garantire l’identità che non ci si sente di avere. Come chi arriva in una grande città da un paese, e dopo un anno parla con l’accento di Roma o di Milano.

Musica popolare

Al pop italiano è successo questo. Lomax, a metà degli anni ‘50 aveva registrato la musica popolare italiana di tutte le regioni. L’aveva definita la più importante d’Europa.

Le istituzioni culturali italiane non hanno pubblicato le sue registrazioni e  non hanno dato retta alla sua idea imprenditoriale: incentivare piccole stazioni radio locali, che si sarebbero mantenute con la pubblicità del territorio, e avrebbero passato la musica delle varie regioni.

Hanno puntato su Sanremo: che, sotto lo strato di bel canto “leggero”, era fatto di tradizione dei musical (New York) e arrangiamenti Usa (Swing, ecc.). Morale. Mentre il pop di molti altri paesi è cresciuto a partire da archetipi tradizionali, in Italia questo non è successo. 

Esempi esteri. La storia musicale afro-americana è la storia di una penetrazione della radice nera all’interno del mondo musicale europeo/coloniale. L’impronta africana ha rivoluzionato la melodia, l’armonia, il ritmo, usando blue notes, sostituzioni armoniche, poliritmi, improvvisazione.

A differenza nostra, i neri, per quanto schiavi, non si sentivano provinciali. Hanno decostruito e poi ricostruito i dispositivi armonici, melodici, compositivi, sonori, occidentali. 

Il più grande regalo che l’Africa (per Hegel era il «continente senza Storia») ha fatto alla cultura mondiale è stato la musica del Novecento. Oggi chiunque ascolta un drumbeat, o suona una pentatonica sta rendendo tributo all’Africa.

Dalla Spagna alla Jamaica

Altri esempi. Il flamenco spagnolo. Il fado portoghese. Il reggae giamaicano. Le musiche caraibiche, salsa, mambo, reggaeton. La ripresa celtica, da Bert Janish (plagiato dai Led Zeppelin) ai Fairport Convention, ad Alan Stivell in Bretagna.

L’onda delle musiche dell’est Europa (remember Goran Bregović?), le musiche “di ritorno” africane come il rai maghrebino, dal Mali (remember Salif Keïta?) alla Nigeria (remember Fela Kuti?). Ci sono esempi infiniti  di musiche non provinciali, ma che da villaggi, paesi, regioni, sono diventate mondiali.

Questo in Italia non è successo. Per provincialismo, nel senso spiegato all’inizio, si è continuato a copiare i modelli Usa. I Måneskin sono solo l’ultimo anello della catena. Sanremo, ad esempio, ha responsabilità molto più rilevanti. 

Ma se oggi si dice a qualcuno “lallallero di Ceriana” la reazione è una risata o occhi vuoti. Se si dice “tarantella” si pensa alla ‘ndrangheta, non a un poliritmo che oscilla tra 2/4 e 3/4 (che quasi nessuno sa suonare e nemmeno solfeggiare).

Se a cena si mette su un canto di pescatori di pesce spada di Scilla ci sono buone possibilità che qualcuno vada via inciampando per le scale e sostenendo di avere lasciato la macchina in doppia fila. Un canto di carcerati di Favignana degli anni ‘40 fa scappare dalla finestra, un canto black di un penitenziario dell’Alabama degli anni ‘40 fa girare il whiskey nel bicchiere. 

Le eccezioni

Il tutto deriva da quel sacrificio rituale di cui si parlava nelle prime righe. Il mainstream italiano è nato non-italiano. Eccezioni. La ricerca sul popolare degli anni 70-90, Nuova compagnia di canto popolare, Musica Nova, Canzoniere del Lazio, Re Niliu in Calabria, La Ciapa Rusa in Piemonte.

Le contaminazioni napoletane, che germogliano da un’identità forte: Roberto De Simone, i Napoli Centrale di James Senese, Pino Daniele, il jazzista Antonio Onorato, i rapper di Napoli (La Famiglia, 13 Bastardi, Co Sang, Speranza e oltre). Antonio Infantino, che si è inventato una tradizione plausibile.

Il crazy diamond che è stato il rock demenziale, che arriva da Petrolini, da Luigi Russolo (compositore futurista), dal ‘77 bolognese, da un punk neurologicamente sfrenato, e si va dagli Skiantos a Elio e le storie tese, e passa da Sandro Oliva and the blue Pampurio’s. Gli inverosimili Cccp e Csi.

Franco Battiato, il cui essere popstar era però solo una modalità dell’essere avanguardia, e che si è servito del guizzo sulfureo etneo con intenti di citazione fuori contesto. Poteva scrivere “Un’estate al mare”, come canticchiare “Lady Madonna”, facendo musica supercolta. Giochi sacri.  

Quasi tutti gli artisti di cui ho parlato – dimenticandomene troppi – non sono esportabili. Perché in Italia c’è stato un Alan Lomax, e non un Chris Blackwell, l’uomo che ha reso famoso il mondo il reggae. Lomax non era ricco, Blackwell sì. Evviva i mecenati. 

E a un anno dal successo dei Måneskin diciamo pure evviva i Måneskin. Che sono stati il solo pretesto per raccontare questa storia. Hanno dei meriti: una presenza sonora forte, avere convinto i discografici italiani ad ascoltare – speriamo a produrre – gruppi rock, canzoni fatte con le corde e coi tamburi, non solo con melodyne e autotune

Per il resto, a un anno dall’esplosione del fenomeno, diciamo pure che i Måneskin più che rock sono la nostra proiezione del rock. Sono anche il simbolo di un presunto “rinascimento italiano” sul quale ci sono molti dubbi.

Damiano forse farà Paul Newman nel prossimo film su Paul Newman (complimenti), Damiano aiuta l’oasi felina di Pianoro (w i gattini). Damiano fa gli auguri di Natale nudo col gattino. Gli odianti li odiano. Gli amanti li amano, e odiano. Chiunque si permetta di criticare.  

Quindi succede che a un anno dal successo dei Måneskin scrivi un articolo per criticare i Måneskin, in quanto inconsapevoli portavoce di una tradizione con le radici mozzate. Ti scrivono, anche, per prenderti a maleparole. È nel gioco delle cose. 

Accettare le critiche

Significativo il tono “emozionale” di diversi attacchi. Il fatto che alcuni prendano una critica per un insulto alla mamma, è un corso di sociologia ipermoderna e populismo social. Uno ti scrive che nella critica «1 vale 1», come un grillino vecchio. E poi aggiunge che «la lingua anglosassone si presta più di quelle latine alla musicalità».

È il K2 della fesseria. Alcuni ti danno del boomer ed è quasi tutta gente sui quaranta/cinquanta che si vuole sentire “giovane e vitale” (cit. Boris, La locura). L’espressione “boomer” andrebbe abolita in un comma del prossimo decreto sul Covid: “vaccinatevi, e non usate la parola boomer”.

Un altro ti strilla che Carmelo Bene li avrebbe amati, e Franco Battiato pure. Problema: entrambi sono mancati e non si può sapere cosa penserebbero. E la retorica giornalistica del “cosa penserebbe” uno che è morto è olio essenziale di fesseria.

Forse si dimentica di dire che Zeus, Gilgameš, Visnu e Ra si sarebbero calati sugli arti di Damiano per fargli le unghie. Sarebbe più simpatico. E meno “simp”. Ecco, i toni di questi difensori “emozionali” dei Måneskin fanno pensare alla categoria dei “simp”, quelli che stanno in una condizione di sottomissione nei confronti di un amore, e investono tempo sentimento, soldi, in una friendzone.

Suvvia, non fate parte della “simp nation”, accettate qualche critica sui Måneskin. A loro non fa male, garantito. Nessuno vi proibisce di ascoltarli, tranquilli. Certe volte è giusto interrompere un’emozione. E poi, a leggere bene, si parlava, solo, di un assassinio rituale. 


 

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