Per tutti e cinque gli anni delle elementari ho avuto un corteggiatore, un compagno di classe determinato a conquistare il mio cuore, che mi riempiva di attenzioni (piuttosto educate, solo moderatamente moleste) e mi faceva moltissimi regali. Quando esplose la mania dei Pokémon il mio corteggiatore era tra i più ricchi collezionisti di carte da gioco della scuola – che in termini di asset dell’età adulta equivale ad avere tre cognomi e la casa a St. Moritz – e, dopo una lunga serie di sassi a forma di cuore reperiti per me in cortile, cominciò a omaggiarmi con alcuni dei suoi pezzi più preziosi.

Poco importava che a me dei Pokémon non fregasse niente – in casa mia c’era un embargo contro Mediaset, non ne ho mai vista neanche una puntata – il corteggiatore si ostinava a privarsi delle sue carte migliori per farmele trovare sotto al banco a ricreazione.

Il dono più raro fu la carta di Ninetales, una volpe bianca dalla coda cotonatissima che si stagliava fiera su uno sfondo argentato olografico. Brillava, non poteva che essere un oggetto di grande valore (in termini di asset dell’età adulta, l’equivalente di un solitario da otto carati). La intascai senza troppi complimenti. Non sapevo niente di Pokémon, però mi piaceva l’idea di possedere qualcosa che nessun altro aveva e tutti desideravano.

Quel pomeriggio stesso, giocando con un’amica che aveva già sistematicamente distrutto tutti i miei giocattoli più cari – unico trauma della mia infanzia, una barbie da collezione prestatale con ingenuità e restituita senza capelli – la carta di Ninetales andò perduta. O meglio: la suddetta amica decise di strusciarla lungo tutti i muri della mia camera per poi lasciarla cadere dietro alla testata del letto a castello, nell’unico punto inaccessibile di tutta la casa. Più di dieci anni dopo abbiamo traslocato, il letto è stato smontato, ma la carta non c’era più. Sospetto quindi che l’amica me l’avesse rubata, come a volte faceva con gli oggetti che non aveva ancora disintegrato.

Fatto sta che quella carta, il regalo più prezioso che avessi mai ricevuto, durò in mio possesso meno di 24 ore. Più o meno quanto la collana del principe al collo di Daphne in Bridgerton.

Collana di diamanti

Si è già parlato molto di Bridgerton, la nuova serie di Netflix prodotta da Shonda Rhimes, adorabile ibrido di Orgoglio e pregiudizio, Gossip Girl e Cinquanta sfumature. Si è parlato soprattutto di Regé-Jean Page, che interpreta il duca di Hastings e che non sarà l’erede di Philip Seymour Hoffman per intensità drammatica, ma ha due natiche che rubano la scena. Si è parlato delle innumerevoli scene di sesso, dell’aristocrazia multietnica rappresentata nella fanta-storia di una Londra di inizio Ottocento, dei costumi magnifici, degli anacronismi, del cucchiaio leccato voluttuosamente dal duca. Ma se c’è una cosa che mi ha tenuta sveglia la notte è quella collana.

Daphne Bridgerton è la debuttante più desiderabile della stagione dei fidanzamenti, nonostante abbia la frangia di saggina. Ovviamente l’unico su cui mette gli occhi è il duca di Hastings, che non vuole sposarsi, non vuole figli ed è appena tornato in città da quello che si presuppone essere stato un lungo viaggio all’insegna del turismo sessuale. Che a lei piaccia il duca è molto comprensibile, mentre che lui resti folgorato da Daphne con quella frangia non sta in piedi ed è forse l’elemento più inverosimile di una serie in cui la regina d’Inghilterra nel diciannovesimo secolo è nera.

Comunque. Daphne, nonostante si sia tagliata i capelli da sola con le forbici dell’Ikea durante la quarantena, ha alcuni pretendenti. Tra questi il meglio piazzato è senza dubbio il principe Federico di Prussia, che è più ricco del duca e sembra anche un brav’uomo che non se n’è andato in giro per il mondo a prendersi la sifilide.

Per sottolineare la serietà delle sue intenzioni, il principe regala a Daphne una collana di famiglia costellata di diamanti grossi come pigne (quale sarà il Pokémon equivalente?). Daphne la tiene al collo giusto il tempo di un ballo, per poi scappare in giardino a limonare di nascosto con il duca. Prima di limonare però si toglie la collana, la appoggia su un muretto e lì la lascia. Nessuno ne farà più parola.

Da quel momento in poi ho visto ogni puntata con l’assillo di quella collana. «Adesso le chiede indietro la collana», pensavo ogni volta che compariva il principe. «Adesso si rimette le mutande e si ricorda della collana», speravo mentre guardavo Daphne scoprire le gioie del sesso in un turbinio di orgasmi senza fine, dimentica della collana e forse anche del proprio nome di battesimo. Convinta che fosse la solita pistola di Čechov, mi aspettavo che prima o poi la collana sparasse. Un’aspettativa infondata, trattandosi di un adattamento di una serie di romanzi erotici e non di un film di Hitchcock. E infatti la collana, proprio come il mio Ninetales d’argento, è sparita nel nulla.

Raddrizzare casi umani

Il secondo problema che ho avuto con Bridgerton ha a che fare con un espediente narrativo a cui il genere femminile si appiglia da secoli: la trama si impernia sulla desiderabilità di un tizio che più inafferrabile non si può. La figura del ragazzo complesso da domare, da aprire in due con il coltellino per le ostriche, da istruire sulla profondità dei suoi stessi sentimenti, che non aspetta altro che una donna dall’animo e dall’imene integri per poter finalmente prendere controllo della propria vita, combinata con l’idealizzazione della passione sessuale (che in qualsiasi relazione, presto o tardi, smette di essere rilevante, più o meno intorno al momento in cui si comincia a litigare su a chi tocca portare giù il pattume), è tra le distorsioni più stupide a cui veniamo regolarmente sottoposte (la lista comprende anche «non ti merita» e il potere dimagrante dell’ananas).

Negli anni ho capito che preferisco gli uomini che dicono grazie e per favore e mi preparano da mangiare, ma non sono sempre stata immune alla sindrome dell’infermiera. A quindici anni ero pazza di uno che sosteneva di aver ucciso un uomo in una rissa in discoteca. Il corteggiatore delle elementari era troppo risolto, non esercitava alcun fascino su di me, con il suo altruismo e il suo inalienabile buon umore.

Quanto tempo abbiamo perso invece a cercare di raddrizzare casi umani senza speranza, anche ben meno avvenenti del duca di Hastings? Quanti incorreggibili narcisisti sono stati convertiti con successo nella storia del mondo? Film, libri e serie tv ce la raccontano da sempre sotto forma di grandi storie d’amore, ma la realtà è assai meno edificante.

L’annosa questione è centrale anche in Sex and The City, di cui è appena stato annunciato un revival – con meno sex e più caldane da menopausa, immagino – di cui, proprio come Kim Cattrall (che non tornerà nel ruolo di Samantha), forse potevamo fare a meno.

Nella serie Carrie e Mr. Big si amano dalla prima stagione. Lui però mette in chiaro fin da subito che ha già divorziato una volta e non ha la minima intenzione di sposarsi di nuovo. Si mollano, si ripigliano, si rimollano.

Dopo sei anni, nel gran finale, tornano insieme solo perché lei si è trovata un fidanzato ancora più stronzo e nel primo dei due film che hanno seguito la serie (di cui anche potevamo fare a meno) ritroviamo a sorpresa Carrie e Mr. Big alle prese con i preparativi del loro matrimonio. Lui, per coerenza, non si presenta all’altare. Dramma, lacrime, Carrie con il mascara alle ginocchia e il cuore spezzato come una ventenne qualunque.

Ma siccome nella finzione l’amore vince sempre (al contrario della vita vera, in cui tendenzialmente vincono gli avvocati), alla fine Carrie e Big fanno pace e si sposano in comune con pochi intimi, come se il problema per lui fosse stato tutto l’ambaradan della cerimonia in pompa magna e non che sono dieci anni che dice che il matrimonio gli fa cagare. Chissà come li ritroveremo nel revival. Nel mondo reale avrebbero già divorziato da un pezzo.

Salto carpiato

Il duca di Hastings fa lo stesso salto carpiato. Nel suo caso gli argomenti contro il matrimonio e la procreazione sono ancora più radicati e comprendono un desiderio di vendetta contro il padre covato per tutta la vita (allarme rosso! È pazzo! Avrà la sifilide!). Che non è necessariamente un buon motivo (non lo è), ma è un motivo come un altro per lasciarlo perdere. Eppure persino lui alla fine si riscopre marito devoto e padre amorevole.

Mentre lo guardiamo cambiare del tutto personalità, per amore di una con i capelli più brutti dei nostri, dentro di noi lo sappiamo che è solo una fiaba. Sappiamo che i trattamenti anti-crespo costano un sacco, che la passione finisce, che non abbiamo il potere di cambiare proprio nessuno (tantomeno il più figo del reame).

Ma il bello della finzione è anche questo: ci permette di far scivolare il buonsenso dietro alla testata del letto e di lasciarlo lì, fuori portata, almeno per un po’.

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