La notizia è cominciata a circolare in queste ore. Si è spento lunedì, molto anziano, Bruno Segre, figura eclettica dell’ebraismo italiano, da lui stesso riassunta in uno dei suoi ultimi lavori, Che razza di ebreo sono io (Casagrande 2017). Bruno è stato, e davvero mai appellativo fu più giusto, un uomo di pace.

Dal 1991 al 2007 ha presieduto l’Associazione «Amici di Nevé Shalom/Wahat al-Salam», a supporto del villaggio cooperativo abitato da arabi palestinesi ed ebrei israeliani, fondato nel 1972 da Bruno Hussar e situato a Ovest di Gerusalemme. Un’oasi di pace (traduzione letterale), che resiste ancora oggi, anche se, certo, l’atmosfera di quei tempi è molto cambiata, logorata dall’incancrenirsi di un conflitto che proprio in queste settimane sta vivendo nuovi picchi.

Tante volte Bruno mi ha parlato dell’Israele degli anni ’60, descrivendolo come una sorta di foglio bianco su cui era possibile disegnare un mondo giusto, fondato sulla convivenza di popoli diversi e sulla giustizia sociale, coerenti con l’ideologia socialista delle origini incarnata dallo spirito dei kibbutzim. Non ho avuto la possibilità di confrontarmi con lui sugli ultimi eventi, ma già da tempo, nei nostri dialoghi, trapelava la delusione per l’Israele attuale, sempre meno solidale e avvitato in una spirale di conflitto sovente da lui stesso alimentata.

Forse, però, sarebbe contento delle centinaia di migliaia di persone nelle piazze a difesa di quel che rimane di una democrazia, come ovunque, molto sfilacciata. Il suo impegno con l’ebraismo italiano è poi proseguito con la direzione, dal 2001 al 2011, del periodico di vita e cultura ebraica «Keshet».

Bruno, divenuto noto al pubblico grazie ai frequenti inviti alla trasmissione di RadioRai3 Uomini e profeti da parte della storica conduttrice Gabriella Caramore, è anche stato una voce preziosa del dialogo ebraico-cristiano in Italia, con la sua presenza pressoché fissa ai colloqui annuali che ancora oggi si svolgono al Monastero di Camaldoli e alle iniziative del Sae.

Oltre all’impegno in questi stessi ambienti, mi univa a lui la passione filosofica. Segre si era laureato con Antonio Banfi, esponente massimo di quell’irripetibile gruppo che Fulvio Papi battezzò con l’ormai celebre locuzione «Scuola di Milano» e da cui io stesso discendo tramite il mio maestro Carlo Sini. Proprio a Camaldoli, mi ricordo una bellissima discussione in cui Bruno mi descriveva i suoi anni universitari, ricordando amicizie comuni, in particolare quella del compianto Emilio Renzi, laureato con Enzo Paci, e responsabile per anni e anni delle relazioni culturali della Olivetti, dove anche Bruno aveva lavorato.

Confesso un personale dispiacere nel vedere quell’Israele tanto amato da Bruno avvitato in conflitti interni ed esterni proprio nei giorni in cui lui se n’è andato. Una terra su cui aveva riversato tanta speranza, per cui aveva lavorato in prima persona e dove, mi disse, si sarebbe trasferito se non avesse pensato di fare un torto alla moglie non ebrea. Da laico qual era, si domandava, una volta arrivati i nipoti, cosa volesse dire trasferire loro quell’ebraicità che lui stesso sentiva come irrinunciabile elemento identitario.

La trovò nella Aggadah di Pesach (il testo che si legge alla cena pasquale in cui è narrata l’uscita dall’Egitto), dove al centro sono i valori biblici di libertà, uguaglianza e fraternità. Ripetendo in questo modo, sicuramente in modo inconsapevole, l’insegnamento del rabbino Hillel, che di fronte allo straniero che gli chiede di riassumergli tutta la Torah nel tempo in cui riesce a rimanere in piedi su una gamba sola, risponde: «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, tutto il resto è commento. Va e studia».

Le toledot (generazioni) vanno avanti. Ora sta a noi, in questi tempi così difficili, continuare quel lavoro e tenere vivi quegli stessi insegnamenti. In ebraico si dice zikronò leberakà, che il tuo ricordo sia di benedizione, carissimo Bruno.

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