C’è una casa editrice immaginaria che pubblica i libri che hai sempre voluto leggere, ma che ti vergogni ad acquistare. Aggiungili senza timore nella tua libreria personale culturalmente elevata.

Si chiama Adelphighetti ed esiste solo su Instagram.

Il numero uno

Il più importante scrittore italiano, venerato maestro, me l’ha segnalata annunciandomi oggi che Adelphi ha ripubblicato Federico Moccia. Nel gioco situazionista non ho capito se ci fosse cascato davvero o giocasse a farci cascare me. Mi ha scritto in serata su WhatsApp: «C’ero cascato. Sono il solito stronzo. Ma sarebbe bello».

In catalogo, il numero 1, il primo autore è ovviamente Fabio Volo con È una vita che ti aspetto. Il secondo romanzo dell’autore più amato dagli italiani. Questo libro parla di Francesco che non era felice e invece poi sì. Finito.

Sinossi: Francesco è un normale trentenne di oggi. Ha un lavoro stressante, anche se remunerativo, che fa per comprarsi cose che gli plachino lo stress, dovuto peraltro a un lavoro stressante. Ha storie di sesso, con tipe una diversa dall’altra. Sente il bisogno di star solo ma ha paura di tagliarsi fuori dal branco, adora i genitori ma non è mai riuscito a comunicare col padre, si fa le canne ma vuole smettere di fumare, è ansioso di crescere ma rimpiange la nonna che lo portava alle giostre.

Ma un giorno si accorge di esistere senza vivere davvero, e decide che così non va. Con una buona dose di coraggio e tanta autoironia affronta la depressione, l’ipocondria, il torpore esistenziale. Come? Chiedetelo a Francesco. E a Ilaria. Perché non vorremmo anticiparvelo, ma in questa storia c’è anche un lieto fine. Fabio Volo esplora con un linguaggio semplice il complesso mondo interiore di tutti e di ognuno.

Un milione di italianə ha acquistato È una vita che ti aspetto. Un infarto culturale inferto alle aspettative delle professoresse democratiche.

Cultura pop

Il secondo titolo della collana è Benvenuti nella mia cucina di Benedetta Parodi, poi Cinquanta sfumature di grigio di E. L. James, Io uccido di Giorgio Faletti, Il codice da Vinci di Dan Brown, Va’ dove ti porta il cuore di Susanna Tamaro, I love shopping di Sophie Kinsella, Twilight di Stephanie Mayer. E infine Tre metri sopra al cielo di Federico Moccia. 

Fanno molti milioni di fatturato dell’editoria italiana degli ultimi vent’anni. Ma sono libri difficilmente presentabili nelle librerie degli italiani per bene. E delle professoresse democratiche (copyright Edmondo Berselli). Vederli col perfetto, elegante vestito grafico e cromatico del catalogo Adelphi fa impressione. Diverte. Svela e squaderna il complesso culturale degli italiani per il pop. E la sprezzatura per ciò che piace alla gente. La cultura italiana non rispetta la cultura popolare, né chi se ne occupa. E detesta i numeri, soprattutto se grandi.

Morte e rinascita

Gli inventori della casa editrice immaginaria e instagrammata sono bravissimi. La simulazione della grafica Adelphi è perfetta, le immagini azzeccate, degne dell’esercizio dell’ekphrasis rovesciata cui si riferiva Roberto Calasso per la scelta delle immagini di quelle copertine iconiche (l’ekphrasis è l’esercizio greco di descrizione di una immagine con le parole).

Adelphi è un editore diverso da tutti gli altri, l’unico che abbia l’aura, l’unico il cui marchio sia gerarchicamente superiore a quello dei suoi autori. Qualsiasi libro Adelphi è un libro Adelphi ancora prima che del suo autore. E fa parte del libro infinito che è il catalogo Adelphi. Ci sono una storia e una mitologia. Dal fondatore Luciano Foà, a Roberto Olivetti, Bobi Bazlen fino a Roberto Calasso. Ora tocca a Roberto Colajanni.

Adelphi è una parola greca (ἀδελφοί) che significa "fratelli, sodali", ed esprime la comunanza d'intenti tra i soci fondatori. Il logo di Adelphi è un pittogramma cinese, conosciuto come «pittogramma della luna nuova». Noto fin dal 1000 a.C., compare, come in una canzone di Battiato, sui bronzi della dinastia Shang e significa “morte e rinascita”. Le copertine dei libri riprendono una “gabbia” grafica, ideata dall'illustratore inglese di fine Ottocento Aubrey Beardsley.

Satira editoriale

All’inizio si parlava di libri unici. Adelphi non aveva ancora trovato il suo nome. C’erano solo pochi dati sicuri: l’edizione critica di Nietzsche, che bastava da sola a orientare tutto il resto. E poi una collana di classici, impostata su criteri non poco ambiziosi: fare bene quello che in precedenza era stato fatto meno bene e fare per la prima volta quello che prima era stato ignorato.

Ecco. Il mondo dei libri è poco spiritoso e molto conformista, l’editoria si prende molto sul serio. Il livello di suscettibilità è molto elevato. «È un paese che tende a prendere sul serio quelli che si prendono sul serio» ci avverte il filologo dantista Claudio Giunta nel suo imprescindibile libro su Tommaso Labranca.

Grazie allora alla satira editoriale, un genere raro che sabota l’ipocrisia e il conformismo, di Adelphighetti e al geniale riferimento sia al ghetto editoriale dei libri di consumo, sia ai “fighetti” che esibiscono i dorsi adelphiani nelle loro librerie Kriptonite. Insomma, sarebbe bello. Peraltro ora Adelphi ha un giovane direttore editoriale. Dopo un trentennio di lavoro editoriale, mi permetto un consiglio. Non dovrebbe mancare, titolo squisitamente adelphiano, La storia della filosofia di Luciano De Crescenzo. Vale per un Adelphi. O per l’altra. Non stiamo a cavillare.

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