«Noi guardiamo il mondo una sola volta, da piccoli. / Tutto il resto è memoria». Negli ultimi versi della poesia Nostos di Louise Glück, ho ritrovato qualcosa di cui sono sempre stata convinta: la nostra vita si determina nell’infanzia. Tutto il resto, tutto ciò che viene dopo, si potrà aggiustare, riusciremo a cambiare solo qualche dettaglio: la sostanza rimane quella delle prime esperienze. In altre parole, il mondo che ci costruiamo e in cui viviamo da piccoli ci accompagnerà per tutta la vita.

L’infanzia è un’età misteriosa. Jeremy Rifkin nel suo saggio La civiltà dell’empatia, basandosi sulle più recenti scoperte delle neuroscienze, asserisce che i bambini, fin da piccolissimi, sono capaci di empatia, di avvertire cioè come proprio il dolore altrui: basta considerare il viso di un bimbo che guarda un compagno che si è fatto male: le loro espressioni sono identiche. Si tratta, per Rifkin, di «impulsi empatici innati».

William Golding, ne Il signore delle mosche, che gli valse il premio Nobel, scrive che i bambini, al pari degli adulti, sono esseri crudeli, violenti per natura: se un gruppo di bambini di trovasse su un’isola deserta, alla lunga si lascerebbe andare ai più efferati atti di violenza.

Cognizione del dolore

È difficile conciliare queste posizioni. La questione è complessa e ogni affermazione categorica diventa semplicistica. Dei bambini non si sa niente.

Certo è che i bambini sperimentano il dolore, ed è proprio da qui che deriva la loro presunta cattiveria. L’infanzia non è un’età «fiorita» e spensierata come spesso comodo credere. La profondità e l’intensità dei sentimenti dei bambini vengono spesso sottovalutate e sminuite dagli adulti.

Basta riflettere sulla terminologia che utilizziamo per parlare dell’infanzia: i bambini non piangono, frignano; i bambini non si lamentano, fanno capricci; i bambini non hanno aspettative o speranze, hanno pretese. In realtà i bambini hanno una profonda cognizione del dolore.

Una razza ambigua

Chiunque abbia fatto esperienza di insegnamento in una scuola elementare sa che i bambini più indisciplinati e violenti sono quelli che hanno sofferto di più. Hanno magari uno dei genitori in carcere o vivono una situazione familiare difficile. Più un bambino è infelice, più è cattivo.

Il Pin di Italo Calvino, protagonista di Il sentiero dei nidi di ragno, è l’emblema della cattiveria: selvaggio, volgare, tormenta chiunque gli capiti a tiro; ha un repertorio inesauribile di canzonette a sfondo sessuale di cui non conosce nemmeno il significato e che si diverte a ripetere per sembrare più grande agli occhi degli adulti.

Pin è solo, è orfano di entrambi i genitori, vive con la sorella che si prostituisce con i tedeschi, non ha amici perché è temuto dai coetanei per la sua crudeltà e gli adulti da cui cerca di farsi accettare ridono alle sue battute oscene, ma lo escludono dalle faccende importanti: «I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure hanno anch’essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l’altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero».

Un serpente o un cappello

Per i bambini il mondo dei grandi è incomprensibile. Gli adulti mentono, non rispondono alle domande o non dicono le cose come stanno. Ciò che accede in casa non si deve sapere fuori, alcune cose si possono dire a qualcuno ma non ad altri.

Non ci rendiamo conto di quanto sforzo richieda tutto questo per un bambino e spesso non riusciamo a essere d’aiuto, persi come siamo nelle nostre insicurezze e nella nostra superficialità. Non siamo credibili, né, come dice Natalia Ginzburg in Le piccole virtù, autorevoli: «Possiamo infuriarci, urlare come lupi; ma in fondo alle nostre urla di lupo c’è un singhiozzo isterico, un rauco belato d’agnello. Noi, dunque, non abbiamo autorità».

Distratti, assenti, tormentati per questo da sensi di colpa. Siamo avidi, come gli adulti di Io non ho paura: di fronte ai soldi non conta più niente, passano in secondo piano tutti i valori. Siamo ciechi, come les grandes personnes del Piccolo principe che scambiano un serpente che ha mangiato un elefante per un cappello.

Ma quanto torna?

Tutti i bambini di Roald Dahl sono infelici per colpa degli adulti: basta pensare a Matilda, invisibile agli occhi dei genitori, o a James, orfano, che scappa dalle perfide zie a bordo di una pesca gigante. Nella trasposizione cinematografica, James, alla fine, deve affrontare il rinoceronte che ha ucciso suo padre e sua madre. Mi ha sempre affascinato il rinoceronte di nuvole di James e la pesca gigante. Da piccola ne ero terrorizzata: era il male più grande, un uragano nero che spazzava via tutto, improvviso, definitivo come la morte dei genitori. 

La morte è un’esperienza sconvolgente nella vita di un bambino. La morte di un genitore, o di una persona vicina, è un buco nero, è il mostro più spaventoso. Non troviamo le parole per noi, figuriamoci per rassicurare dei bambini che chiedono spiegazioni.

J.K Stefánsson descrive questa inadeguatezza in Crepitio di stelle, e lo fa in punta di piedi: «Io e papà cerchiamo di sentire un rumore di passi che non esiste più, fissiamo le scarpe che aspettano i suoi piedi, guardiamo il maglione che aspetta il braccio destro e anche quello sinistro, e io chiedo: ma quando torna? Non una volta, nemmeno due, nemmeno dieci ma dieci volte dieci, e ogni volta che lo chiedo papà si irrigidisce come se l’avessero infilzato».

Il dolore

Anche Letizia Muratori, nel finale del racconto La casa madre ci dà uno schiaffo in faccia: «“Papà, dov’è andata la mamma?”. Ero sicura che lui fosse già in cucina, alle prese con qualche perfido hamburger da scongelare, invece lo ritrovai seduto sul pavimento, davanti alla porta d’ingresso. Non si era nemmeno tolto la giacca a vento, teneva le braccia tese, gomiti alle ginocchia, e la testa bassa nel mezzo. Sembrava uno di quegli uomini che dormono sulla strada con il plaid addosso».

Pensando di proteggere i nostri bambini mentiamo, mascheriamo, ci ingarbugliamo nelle nostre stesse parole. Lo sanno i bambini di Il dolore è una cosa con le piume di Max Porter: «Sapevamo che alla domanda “Dov’è la mamma?” non arrivavano risposte sincere».

È inutile mentire o cercare di edulcorare la morte con eufemismi come “La nonna è volata in cielo” o “Sta dormendo”: un bambino sa perfettamente che è qualcosa di tremendo e irrimediabile, qualcosa contro cui non si può far nulla se non cercare di padroneggiarla come i due fratelli che, sempre nel libro di Max Porter, ammazzano il pesciolino della pozza d’acqua.

Nella letteratura per l’infanzia sono tantissimi i bambini a cui sono morti i genitori: da Biancaneve a Harry Potter, da Bastian della Storia infinita fino ai tre fratelli protagonisti di Una serie di sfortunati eventi. Sembra che vogliano mostrare anche ai più piccoli che la morte è universale e va accettata perché non si può fare altrimenti, ma il dolore che ne deriva rende più forti.

Tutto brucia

Ci ostiniamo a pensare che i nostri bambini siano felici. Come potrebbero non esserlo? Eppure il report 2021 del Centro studi Cnop ci dice che in Italia il 70 per cento dei bambini ha problemi psicologici. Vuol dire che siamo stati distratti, assenti e superficiali. Che non siamo stati abbastanza attenti. In fondo i bambini chiedono solo di essere visti e ascoltati.

Quello che cercano è una certezza, una persona che sia dalla loro parte. Penso ad Anguilla, in La luna e i falò di Pavese, che vede sé stesso in Cinto, un bambino zoppo di dieci anni che vive in miseria nella cascina che era stata la prima casa del protagonista. Anguilla vorrebbe essere per Cinto quello che Nuto era stato per lui: un punto fermo, un riferimento, un amico che lo considerava e che gli insegnava ogni cosa.

Ed è proprio da lui che Cinto si rifugia, quando tutto nella sua vita va in fiamme: «Cinto ansava, mugolava, era tutto nero e graffiato. S’era seduto nella polvere sui miei piedi, mi stringeva una gamba e ripeteva: “Il papà si è impiccato nella vigna, ha bruciato la casa... anche il manzo. I conigli sono scappati, ma io avevo il coltello... È bruciato tutto…”».

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