Piuttosto che la barca di Pietro, tra i marosi scatenati dagli oltre 3mila bambini nativi morti nelle scuole residenziali cattoliche gestite dal governo canadese tra il 1870 e il 1997, la Santa sede è più simile al kayak Inuvialuit donato a papa Pio XI e oggi custodito nel museo etnografico vaticano e che le Prime Nazioni, i Métis e gli Inuit vorrebbero riportare in Canada. Dopo aver incontrato papa Francesco, infatti, sono stati loro a chiedere alla chiesa cattolica di tornare in terra artica ed espiare i peccati di opere e omissioni che segnarono le missioni cristiane nel Nordamerica per oltre un secolo: «Mi domando, e anche i cattolici dovrebbero chiederselo, come mai la chiesa ci abbia messo così tanto per fare la cosa più giusta, umana e onorevole» s’interroga Niigaanwewidam Sinclair, professore di studi indigeni presso l’Università di Manitoba. È un conto salato quello presentato dalle delegazioni riunitesi in Vaticano pochi giorni fa: secondo il lavoro realizzato dalla Commissione per la verità e la riconciliazione a partire dal 2007, in oltre cento anni almeno 150mila bambini furono sradicati dalle tribù aborigene di appartenenza con una tale violenza che nel 2008 il premier canadese Stephen Harper – mutuando il termine introdotto dal giurista Raphael Lemkin - chiese pubblicamente scusa per quello che definì «genocidio culturale». Un anno dopo, in Vaticano anche papa Benedetto XVI espresse il suo rammarico davanti al presidente dell’Assemblea dei nativi del Canada, Phil Fontaine. Nel suo viaggio in Ecuador nel 2015, papa Francesco  ammise i «gravi peccati contro i nativi americani commessi nel nome di Dio».

La dottrina della scoperta

Per i popoli aborigeni, però, le dichiarazioni non bastano: «Mi aspetto che il papa annunci che visiterà il Canada scusandosi con i sopravvissuti delle Prime Nazioni, Inuit e Métis per gli abusi spirituali, emotivi e sessuali perpetrati ai loro danni, similmente a quanto fatto nel 2010 rivolgendosi alle vittime di violenza sessuale in Irlanda» ha detto Sinclair.

Alla base delle istanze, si auspica che il papa condanni la cosiddetta «dottrina della scoperta», l’impianto normativo alla base dell’appropriazione territoriale e socio-culturale della terra indigena, cristallizzatosi con la sentenza della Corte suprema americana nel caso Johnson vs. McIntosh (1823), ma che ha di fatto la sua origine nella bolla Romanus pontifex emanata da papa Niccolò V nel 1455: un lasciapassare usato dai coloni europei per «sottomettere tutti i nemici di Cristo […] e ridurre i suoi abitanti in schiavitù perpetua» nel Nuovo Mondo.

«La chiesa ha bisogno di restituire tutta la terra che le è stata data per gestire le scuole residenziali delle Prime Nazioni. Non si deve negoziare su questo, perché la terra sottratta alla violenza deve essere restituita» ha ribadito Sinclair. Dello stesso avviso sono i gesuiti canadesi: «Stiamo dando il nostro contributo per decolonizzare i nostri modi di pensare e sostenere gli sforzi dei popoli indigeni all’autodeterminazione. In questo senso, noi gesuiti ci stiamo impegnando sia per nella ricerca di nuove opportunità di accesso equo all’istruzione sia nella ricostruzione della cultura indigena soppressa negli anni delle scuole residenziali» dichiara la Compagnia di Gesù in Canada.

Un prete da condannare

Ma riparazione non significa solo restituzione. Due giorni fa, la delegazione canadese ha toccato al cospetto di papa Francesco il tema degli abusi sui minori perpetrati all’ombra delle scuole. Per certi versi, si tratta di una ferita ancora aperta, come dimostra il caso di Johannes Rivoire, il sacerdote accusato di aver abusato di minori durante il suo ministero negli anni Sessanta tra le comunità Naujaat e Rankin Inlet, nel Nunavut, il territorio del Canada settentrionale. Oggi il religioso 90enne vive in Francia, e le vittime da tempo chiedono la sua estradizione.

Lori Idlout è parlamentare nel Nunavut e si batte perché altri parlino: «Non è accettabile consentire a criminali come Johannes Rivoire di vivere la propria vita in libertà mentre i sopravvissuti sono ancora feriti. Le scuse sono un primo passo per riconoscere il danno e il trauma, ma la chiesa deve smetterla di proteggere gli abusatori e gli insabbiamenti istituzionali che hanno avuto luogo sotto la loro sorveglianza. Ora hanno l'opportunità di rimediare a questa atrocità» ha detto.

Anche mons. Anthony Krótki, vescovo della diocesi di Churchill-Hudson Bay-Nunavut, è favorevole alla sua estradizione. L’ultima parola la pronuncerà il papa quest’oggi: dalla chiesa delle periferie, le aspettative sono tante.

© Riproduzione riservata