«Vivo a Milano e non esco mai di casa. Sto praticamente chiuso in una stanza». È il ricordo di Franco Battiato di uno dei periodi meno noti della sua carriera quando si dedica unicamente alla musica “d’avanguardia”, tra il 1976 e il 1978.

Teniamo le virgolette perché la definizione ha tutta l’estrema serietà ma pure quell’ironia al confine del sarcasmo feroce che segna tutte le scelte del musicista siciliano. Karleinz Stockhausen l’aveva chiamato a Colonia nel 1974 e lo aveva rimandato a casa con la preghiera di studiare la musica, imparare a leggere e scrivere sul pentagramma.

Battiato aveva eseguito con grande applicazione, benché il risultato finale fosse quello di una calligrafia vagamente assirobabilonese, una specie di gergo segreto tra lui e i suoi musicisti (i pianisti Ballista e Canino, il soprano Anna Maria Salvetti tra gli altri, poi Juri Camisasca e Roberto Cacciapaglia).

Lo ricorda il pianista e musicologo Carlo Boccadoro che ha ritrovato di recente le partiture semidisperse dei lavori contenuti negli album Franco Battiato (1977), Juke Box (1978), e L’Egitto fuori dalle sabbie (1978). Un prezioso lavoro di studio e restauro, ancora poco ascoltato, che torna in scena anche a Roma con l’Ensemble Sentieri Selvaggi (2 ottobre, Auditorium, nel corso di Romaeuropa Festival).

L’“avanguardia” anche quella ufficiale non ha quasi mai grandi spazi nelle programmazioni delle stagioni concertistiche. A Romaeuropa c’è pure da ascoltare un intero programma di Penderecki dai polacchi dell’Atom String Quartet (1/11 Mattatoio), la serata di Fabrizio Ottaviucci (immenso pianista avantgarde) dedicata al Treatise di Cornelius Cardew e ad Alvin Curran.

E il «monodramma giocoso» di Giorgio Battistelli, L’imbalsamatore, con in scena Massimo Popolizio e la salma di Lenin (11/10). Oppure l’incredibile Index of Metal di Fausto Romitelli che inizia coi Pink Floyd stravolti e campionati come nel film di Bellocchio su Moro. Insomma, di recuperare qualcosa di un pezzetto di Novecento.

Ma tornando a Battiato, il finale è noto. «La musica contemporanea mi butta giù», avrebbe cantato dopo un periodo di frequentazione assidua dei concerti a Milano, persino delle lunghe e molto fortunate partite a poker con Luciano Berio (altro aneddoto raccolto da Boccadoro nel volumetto Cafè-Table Musik, ed. La nave di Teseo), ma in fondo una sostanziale e ricambiata estraneità col mondo dell’avanguardia ufficiale-accademica alla quale opponeva la sua straordinaria capacità di «intuire lo Zeitgeist», per usare ancora le parole di Boccadoro.

Certo, la musica di quel biennio non veniva dal niente. C’era l’esperienza di Steve Reich e del minimalismo in composizioni come Za per solo pianoforte, che usa la stessa tavolozza armonica di Four Organs del compositore americano e la medesima infinita ripetizione di accordi e cluster. Ma il vero centro di gravità della composizione è tutt’altro: sono le onde di armonici che si creano dopo la battuta e durante il rilascio dei tasti.

Battiato la chiamava «micromusica» e ne era perdutamente affascinato, lui per primo, probabilmente influenzato dal significato che la risonanza nella filosofia aveva di Gurdjeff e nella meditazione che aveva iniziato a praticare.

L’Egitto prima delle sabbie, uscito nel 1979 con un titolo bellissimo tratto ancora da Gurdjeff, perfeziona ancora questo stile di composizione fino a una specie di trasparente perfezione. Una manciata di note si ripete con pochissime variazioni e pause studiate in maniera da innescare un sottile e fragilissimo gioco di armonici, ancora “micro”.

Musica che ha bisogno di silenzio, concentrazione, perfino solitudine, qualcosa di molto vicino al deep listening dell’altra minimalista Pauline Oliveiros. Avanguardia a parte, la critica musicale rock non andò molto oltre il considerare questi dischi una stranezza al limite della goliardata.

Ma i dischi uscirono per Ricordi, usando il canale della musica pop, e questo in qualche modo salvò lavori per i quali Battiato stesso avrebbe avuto (come era nel suo carattere) parole di feroce autocritica. Solo per L’Egitto stravedeva. Ascoltarlo, ancor oggi, è un atto di fede nel potere della musica di cambiare la percezione del tempo e l’ascolto anche senza “muoversi” in apparenza. È, in un certo senso, “tempo da perdere”. Cioè da guadagnare. Proprio come in tante opere del minimalismo americano.

Battiato, a differenza degli americani Glass, Reich, il molto amato Terry Riley, non cerca mai di innescare né suggerire fenomeni di trance e perdita di sé, al contrario preferirebbe indicare la via per una coscienza aumentata.

Esperienza generazionale, oggi piuttosto lontana e sfuocata, il passaggio tra il fuoco del tutto-politico, e il si salvi chi può del cosiddetto riflusso. Quanto ancora utile? Di certo il lavoro di Boccadoro, iniziato più di dieci anni fa con Battiato ancora in vita, illumina un momento di passaggio fragile e delicato della nostra storia poltico-culturale.

Nel 1975 il musicista siciliano aveva partecipato alla tre giorni di concerti del Parco Lambro che fu il crac definitivo del rapporto tra i protagonisti del rock “progressive” e il loro pubblico di riferimento. Da lì era iniziato l’autoesilio. Una «reazione al clima cupo che avvolge l’Italia di quegli anni squassati dal terrorismo», scrive con tutta la chiarezza possibile del caso Boccadoro.

Assieme a Claudio Rocchi e a Demetrio Stratos, suoi compagni del vecchio mondo pop sopravvissuti ai tumulti, passano l’estate del ’77, quella più dura, chiusi nella mansarda di Claudio Rocchi il quale intanto sperimentava con l’elettronica e i nastri magnetici.

Il lavoro di Carlo Boccadoro su quella musica che allora si era ritirata dal rapporto più tradizionale col pubblico non sembra privilegiare troppo l’aspetto mistico (che Battiato ebbe soprattutto dopo, durante la costruizione del suo diciamo così personaggio). Boccadoro scopre un filo rosso, estremamente significativo per il “dopo” tra l’ironia del Battiato anni ’80 e alcuni lavori precedenti di stampo teatrale blobbistico, in cui convivono nel montaggio voci e frammenti con effetti satirici e vagheggiamenti acusmatici dell’infanzia, fino agli sdilinquimenti chopiniani e canzonettistici. Il più famoso resta Etika Von Etica dall’album Clic, con frammenti di Faccetta nera, canzoncine giapponesi, finti radiodrammi sentimentali e il finale con l’inno d’Italia.

È in nuce una versione più feroce e meno scontata di Povera Patria, che di Battiato è una delle canzoni-invettiva più famose. Forse il più soprendente tra questi pezzi è Cafe-Table Musik, recuperato dall’ensemble Sentieri Selvaggi grazie a una partitura ritrovata che è, si direbbe, più una sceneggiatura. Nonostante sia composto da frammenti adolescenziali di voci, rumori e esercizi di pianoforte, tutto è rigorosamente scritto. Anzi ri-scritto. «Citazione false o meglio copie originali, rifletteva Battiato con la consueta ironia nella note di copertina - Coffee table book come Proust chiamò i suoi libri (...) un collage orfico».

Alva Noto

Ci sono due motivi per cui alcune scelte di quest’anno del programma di Romaeuropa si possono rileggere alla luce della riscoperta proprio di quel Franco Battiato «chiuso in casa» quasi cinquant’anni fa per imparare ad ascoltare i suoni in una maniera diversa, più profonda. Il primo motivo ha a che fare con la traiettoria della musica d’avanguardia post-minimalista e post-ambient, cioè i due movimenti da allora hanno aperto la strada a un’idea meno accademica dell’avanguardia.

Siamo già al confine con la musica pop – dove il rischio del kitsch e del midcult è sempre alto e in agguato, questo Battiato lo sapeva (e lo vedeva) benissimo. D’altra parte la musica applicata alle immagini, la “quarta dimensione” del sound design e del cinema sembra essere oggi una delle strade più praticate. Alva Noto, berlinese cinquantenne, porta a Roma il suo Xerrox vol. 4 (4 novembre, Auditorium).

Collaboratore di Riuchi Sakamoto negli ultimi anni di vita del compositore giapponese soprattutto dei suoi lavori per il cinema ma nato artisticamente nella Berlino degli anni Zero, Noto mostra i nuovi capitoli della sua ricerca sui glitch, cioè sulle imperfezioni della macchina che vengono però rovesciate e esibite in primo piano, con gelida ironia.

Esperiementi che risalgono alla fine degli anni ’90 e che hanno profondamente cambiato il suono della musica techno che usciva allora dalla scena rave diventando esteticamente adulta. Xerrox, come Xerox e come error, lavoro sul decadimento delle copie nell’epoca digitale, labirinto di copie delle copie, frammenti irriconoscibili trasformati in un magma organico. In fondo pure quello di Alva Noto è un lavoro sulla “risonanza”, sia pure digitale, come alone fantasmatico del suono, sulla capacità nuova di ascoltare i suoni da una prospettiva nuova, dentro e attraverso la macchina.

Noto è stato uno dei primi musicisti/compositori da pc, ha annunciato la nuova figura del musicista «chiuso in casa». La metafora forse è oppressiva ma non troppo, preludio della vuotezza da social, alle trasformazioni del lavoro intellettuale. Il carcere di sè chiama anche ad un obbligo di trascendenza e libertà una specie di beethoveniano scavo dentro gli ultimi brandelli della propria umanità.

Ben Frost e Jeff Mills

Ben Frost (8/10 Auditorium), compositore australiano che vive da tempo in Islanda, ha tentato il field recording più sublime di tutti quando ha registrato i rumori dell’eruzione del vulcano Fagradalsfjall, con la collaborazione del musicista italiano Francesco Fabris alcuni anni fa.

I suoni della nascita della terra che l’umanità può soltanto ascoltare, come se origliasse un buco spazio temporale, Frost li ha portati in giro negli Auditorium e nelle gallerie d’arte di mezzo mondo, anche da noi.

Qualcosa di ancora più radicale e sorprendente sta nel lavoro di Jeff Mills (inaugurazione all’Auditorium 12/09) per come lo abbiamo visto nei giorni della pandemia in un filmato prodotto dalla fondazione Onassis, girato sull’isola di Delos completamente vuota, di fronte alle colonne del tempietto di Iside, sorvolato da droni e telecamere generosissime in planate e panoramiche.

Una cosa a metà tra un Cafè del Mar e il tempio greco evocato nel saggio sull’opera d’arte di Heidegger. Mills, vecchia conoscenza di questo genere di eventi ambient-sinfonici, nato a Detroit dov’è è stato uno degli inventori della music techno, ha fatto sonorizzazioni di film (Metropolis) molto viste anche qui da noi.

Torna sulla tracce della sua collaborazione con il batterista Tony Allen, interrotta dalla morte dello storico compagno d’avventure di Fela Kuti. Con lui il piano elettrico del francese Jean Phi Day, già in quella avventura, e il suonatore di tablas Prabhn Edouard costruiscono un tessuto delicato e cangiante che deve moltissimo al solito Miles Davis e alle sue avventure afro-futuriste – ma l’afrofuturismo era proprio una delle idee al fondo della tecno originaria. Di nuovo siamo invitati a cambiare prospettiva sul nostro rapporto col tempo e con lo spazio in un esperienza di ascolto profondo.

È quel che resta della grande utopia notturna dei rave, che proprio oggi sono tornati a emanare una luce di sinistro pericolo e operazione di polizia, almeno in quella che è stata l’anno scorso una delle prime e grottesche mosse della culture war all’italiana.

Caterina Barbieri

Musicisti chiusi in casa. Come durante la pandemia. Molti dei lavori in programma al Romaeuropa Festival anche quest’anno sono stati ancora concepiti e realizzati in quel deserto. Così Spirit Exit di Caterina Barbieri, compositrice italiana berlinese che ormai è una presenza fissa di tutti i grandi festival di musica elettronica europei. Lei minuscola e luminosa come un libellula nelle sue apparizioni, quasi sospesa in aria, circondata dalle videoproiezioni di elementi mutanti e coloratissimi di una natura artificiale partorita dal computer, come una specie di incredibile anime dal quale si viene immediamente risucchiati.

Diplomata in chitarra e musica elettronica al conservatorio, Caterina è una virtuosa dei vecchi synth analogici che sono per lei – lo ripete sempre – la sua scatola delle magie, l’elettronica come territorio di scoperte e di mistero.

Nuova star internazionale della nostra musica ricorda in qualcosa il Battiato alle prese con il suo Vsc3, lo citiamo ancora per certe improvvisazioni solitarie e quasi tutte perdute in perfetto stile anni ’70, dalla sensibilità krautrock. Synth incerti, bizzosi, capricciosi nell’intonazione e nella risposta all’elettricità, suonati coi gesti (non con la tastiera) come in un microballetto.

Eppure capace di una sensibilità pop traboccante e segreta, massimalista e romantica, Caterina Barbieri, e di trascinare con sè il pubblico in vortici melodici di grande trasporto. Leggendo Santa Teresa d’Avila ed Emily Dickinson, Spirit Exit, una via d’uscita per lo spirito, è stato concepito in casa e in un piccolo studio durante i lockdown, oggi quasi non ci dice più niente. O forse potrebbe farci interrogare di nuovo, proprio oggi che siamo tornati ad affollare i teatri e gli auditorium, i piccoli e i grandi concerti, su quale sia il nostro ruolo nella creazione collettiva live, se ancora ce n’è uno che possa andare oltre il consumo puro e semplice. Vecchie utopie del ’900.

Magaletti & co.

Valentina Magaletti (4/10 nella rassegna Digitalive), percussionista italo-londinese, di nuovo in piena pandemia aveva messo in scena il canovaccio della sua «queer anthology of drum» sul palco del Cafè Oto a Londra (completamente vuoto per il resto), uno dei piccoli/grandi hub della ricerca musicale internazionale.

Solitaria, portando con sé un assortimento di percussioni da far girare la testa, dai vibrafoni alla batteria al piano, alternando pagine di puro gamelan balinese a ripetizioni da minimalismo Reichiano (non possiamo non dirci reichiani?).

Torna a Roma ripresentando questo lavoro che caratterizza particolarmente il suo lungo curriculum di progetti anche collettivi (Vanishing Twin ecc.). Magaletti è un’altra delle musiciste italiane/internazionali di cui andare almeno un po’ fieri, che illumina la rassegna Digitalive con le apparizioni di musicisti italiani della nostra vivacissima scena elettronica (Arsalendo/Bianca Peruzzi, Cosimo Damiano, 7 ottobre al Mattatoio), doppiata la settimana precedente dai cantautori elettronici-indie dell’altra rassegna lineup, con Daniela Pes, Vieri Cervelli Montel, Miglio ecc. (21-22/9 sempre Mattatoio).

Che cos’è esattamente “queer” nel lavoro di Valentina Magaletti e nei suoi tamburi? Cosa è queer nei suoi field recording dal quarto mondo, documento di viaggi che non sono mai accaduti, come suggeriscono le note di copertina del disco poi uscito per l’etichetta del Cafè Oto nei giorni in cui i concerti erano sospesi. Forse la liberazione delle percussioni e della loro storia millenaria nella fluidità del puro suono, infantile quasi. Forse la stranezza carnevalesca e dionisiaca di questo gioco. C’è un tempo queer, suggeriscono i teorici, ed è radicalmente opposto al tempo dei ruoli e del diventare adulti.

«Quarto mondo»

«Quarto mondo», l’espressione fu coniata per lo scomparso trombettista Jon Hassell, un altro dei protagonisti delle stagioni dell’anti-avanguardia anni ’70. Suggerisce geografie vere e immaginarie, senso dell’avventura, identità fluide. Il teatro del Romaeuropa Festival vede il ritorno a Roma dello sheakspeariano Tempest Project di Peter Brook, con la sua compagnia di interpreti di cinque nazionalità (dal 26/10 all’Auditorium) e Milo Rau con Antigone in Amazzonia (3-4/10 Teatro Argentina) recitato da attori professionisti e non professionisti del movimento dei Sem Terra brasiliano.

Queer è infine il Dioniso della regista Elli Papakostantinou alle prese con una versione delle Baccanti di Euripide il 30/9. Testo fondamentale, ampiamente riletto e analizzato, che mette in scena la distruzione e lo smembramento a opera del dio della musica e dell’ebbrezza di corpi/immagini maschile: il re di Tebe Penteo e suo nonno Cadmo.

Penteo non riconosce neppure la divinità di Dioniso. Infuriato e invidioso nei confronti delle donne convolte nel rituale, viene costretto dallo stesso Dioniso a travestirsi per spiarle in gioco di perversa crudeltà e il suo viaggio sarà senza ritorno. Papakostantinou si rivolge alla musica per trovare nel performer non-binary uruguagio Ariah Lester il suo Dioniso, autore e interprete delle canzoni originali dello spettacolo.

 

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