Si può dire, non si può dire. Chi ha a cuore la nuova sensibilità diffusa su corpo e identità ma anche il potere creativo, generativo delle parole si starà accorgendo che i tempi sono importanti ma delicati: il rispetto dovuto, necessario, si accompagna non di rado a un’univocità che rischia di determinare in anticipo il campo dell’invenzione (da qui le tirate, in realtà spesso mal poste, strumentali, contro la cosiddetta “dittatura del politicamente corretto”).

Attivisti e membri delle comunità marginalizzate – donne, lgbt, non bianchi, corpi non conformi – com’è comprensibile, si trovano a riproporre in loop, di fronte ai medesimi problemi, le sacrosante solite soluzioni, anche linguistiche, espressive. Soluzioni che si fanno strada, acquistano sempre più credibilità, influenzano.

C’è assoluto bisogno di vedere le ingiustizie sistemiche che ci circondano ma l’ipervigilanza contemporanea può condizionare chi, scrivendo, esplora il cuore e la mente degli esseri umani, portando a risultati che inevitabilmente tendono ad assomigliarsi.

Possono esistere oggi progetti creativi che si facciano carico dei nuovi modi di intendere il corpo, le relazioni e il sistema di potere che le attraversa in modo non scontato? Possono esistere autrici, autori, in grado di non essere né didascalici, ideologici, né fermi al secolo scorso? Teresa Ciabatti col suo nuovo romanzo Sembrava bellezza (Mondadori) sembra proprio mostrare che si può fare dell’esperienza della marginalità, della vergogna, un grande territorio di immaginazione, travalicando l’abusata (e sterile) contrapposizione tra politicamente corretto e scorretto.

Certo non è facile, i rischi sono molti, e sarebbe interessante chiedere a Ciabatti se ha agito in modo programmatico e con quali tappe, ma Sembrava bellezza pare proprio tentare questa via. Inventa una risposta diversa al trauma, non la denuncia ma la mitopoiesi dinamitarda, la fantasticheria incendiaria che tutto agguanta e divora, che di tutto si impadronisce, piegandolo all’infinito bisogno instillato da ciò che è stato inflitto/negato. «La memoria è arbitraria, va a caso, come l’immaginazione», scrive Ciabatti: e se tutto va a caso, cosa resta? Restano soprattutto gli esiti immaginifici dell’umiliazione riesaminata, riaccolta.

Realtà e immaginazione

In quello che appare, già dopo poche pagine, il suo progetto più maturo e ambizioso, l’autrice finalista al Premio Strega 2017 esplora i limiti di ciò che può essere pensato e scritto, assumendosi la responsabilità di questa esplorazione. Dopo la pura fiction di Matrigna (2018), ritroviamo in questo nuovo lavoro la prima persona disturbante de La più amata, ma è chiaro che l’autofiction qui lascia molto più spazio all’invenzione, o meglio, alla sovrapposizione incessante, sperimentale, di realtà e immaginazione a fini emotivamente eversivi.

La protagonista di Sembrava bellezza è una scrittrice di mezza età senza nome, con un matrimonio fallito alle spalle, una figlia ventenne che la detesta e una sequela di amanti occasionali. Una donna ossessionata dall’idea di perdere la fama e animata dal desiderio di rivalsa: «Ogni rapporto, dentro e fuori casa, ha preso la forma del torto da vendicare».

Proprio nel momento di maggior incertezza professionale, esplode il grande flusso narrativo che ha per fulcro un ritorno in grado di rispalancare il passato e le sue umiliazioni. Federica, compagna di liceo della protagonista, torna a cercarla dopo trent’anni, e con lei ricompare anche Livia, la bellissima sorella di Federica, il cui sviluppo cognitivo si è fermato a causa di un misterioso incidente, «la notte di tenebra dell’adolescenza», che le ha causato danni cerebrali permanenti. Una ragazza farfalla, una ex reginetta ora affetta da ritardo mentale, di cui la scrittrice inizia a prendersi cura, per ragioni che il lettore apprende per gradi.

Con il ritorno mnemonico e concreto di Livia e Federica, la protagonista torna a essere quello che è sempre stata: la ragazzona di provincia piombata di colpo a Roma, la vergine obesa di Maremma arrivata ai Parioli e schifata da tutti, il fenomeno da baraccone. L’adolescenza è un’età plutonica, fatta di irruzioni dal sottosuolo, detonazioni ormonali e mitomaniacali, un’età di «creature in formazione, esseri sghembi, speranzosi di assestamento», l’adolescenza un «teatrino di teste mozzate», e serve coraggio per non limitarmi ad archiviarla, lasciarsela alle spalle.

C’è il trauma e la sua rielaborazione, si tende a dire: Ciabatti mostra che la rielaborazione è un processo infinito e collettivo, diffuso, ambivalente e feroce. Sembrava bellezza è la storia di un’amicizia (autentica, di comodo), di un’alleanza nell’emarginazione, ma in realtà un romanzo sul limite: la scrittura avvinghia perturbando, spostando l’asticella di ciò che può essere rivelato, ammesso, soprattutto a sé stessi.

Esiste una scrittura edificante, dei buoni sentimenti: Ciabatti sta agli antipodi. In questo libro dà la sua personalissima interpretazione al tema della sisterhood, della sorellanza: quello che mette in scena è un sodalizio ben poco affettivo, fatto di rispecchiamenti patologici, anamorfosi pazze, languori inestinguibili, malie, un affresco spietato e insieme pieno di umanità.

Livia, sorella di Federica, era la compagna invidiata a morte, la protagonista ne sognava l’annientamento: con l’incidente, che solo a poco a poco viene a specificarsi, si realizza il desiderio di distruzione del bello. La morale è una recita, non può nulla in anticipo: è solo con la maledizione divenuta esperienza di realtà (come in Labyrinth, il film del 1985 don David Bowie) che si può, forse, uscire dal vaneggiamento egopatico.

Stile visionario

Dal punto di vista stilistico è di certo il romanzo più audace e visionario dell’autrice, estremamente denso e coeso, dal passo scandito da accelerazioni e dilatazioni ipnotiche. Il livello espressivo non cala mai, la prosa trattiene solo l’indispensabile, l’emotivamente saturo. L’energia affabulatoria è costante, anche grazie agli scatti metaletterari: la voce narrante entra e esce dal patto di finzione, anticipa, butta fumo negli occhi. Va oltre l’idea di narratore inaffidabile: è nell’affidabilità che regna l’esperienza di realtà, la vita. Sembrava Bellezza è un resoconto spudorato e insieme artefatto, un accoratissimo inganno, un romanzo sull’ambizione schiantata, sul senso inestirpabile di inadeguatezza che porta a rendere tutto, amiche, amori, figli, madri, padri, un diorama, un mucchietto di pupazzi, burattini.

Chi ha seguito l’itinerario inventivo di Ciabatti lo sa: la sua opera vortica da sempre attorno agli stessi nuclei: adolescenza, corpo, sguardo degli altri, desideri rappresi in feticci. Qualcuno ha pensato (e scritto) che con La più amata avesse raggiunto il cuore delle sue ossessioni, invece Sembrava bellezza esige di rivedere il giudizio, perché si tratta di un libro che non si lascia condurre dal risentimento o dalla leggenda tutta privata, ma sa agguantare tutto un tempo, tutta un’epoca, per farne racconto, letteratura.

Al centro della scena ci sono infatti le ragazze degli anni Ottanta, le ragazze che rischiano di scomparire nella botola dei camerini dei negozi di abbigliamento romani di via del Corso, ci sono Emanuela Orlandi, Mirella Gregori, disgraziate icone cercate invano per decenni: Livia non è un’Emanuela Orlandi che sparisce ma ritorna, che resta tra i vivi ma che si blocca nel tempo? Livia, una cinquantenne con la testa da ragazzina, oscena, sboccata. Il desiderio di fermare il tempo, l’orrore del tempo fermo per sempre.

Con le sue apparizioni, il personaggio di Livia è il cardine pittorico del libro. È la grande invenzione letteraria che permette a Teresa Ciabatti di muoversi su una dimensione sincronica, piena di epifanie, o abbagli: l’esplosione immaginifica dell’infanzia, una mente bambina nel corpo adulto, che confonde le partizioni temporali.

Corpi instabili

Il corpo di Livia adolescente lasciava dietro di sé reliquie – capelli nel lavandino, assorbenti interni – e la protagonista non avrebbe voluto altro che essere lei, essere quella ragazza perfetta, desiderata da chiunque. E se la ragazza perfetta fosse in realtà quella che sta peggio di tutti?

Il corpo di Livia fermo nel tempo è un idoletto e una bambolina voodoo, santino e rifiuto umano: tutto insieme, tutto confuso. Farfalle, ragazze farfalle: la bellezza dura poco, quindi meglio essere ai margini, incattivirsi, immaginare. Chi era la prediletta, la dea? «I ruoli sono postura, null’altro».

Ciabatti crea una donna-feticcio su cui esaminare gli esiti di questo blocco, Livia è l’ipotesi che diventa caso studio, la condizione mentale incarnata, rappresa. Una donna-feticcio dai comportamenti tragici e insieme esilaranti: può un romanzo essere straziante ed esilarante insieme? Sembrava bellezza offre anche uno sguardo ambivalente, caustico e insieme struggente sulla diversità, sulla disabilità.

Al centro dei libro, non solo il corpo di Livia: molti corpi, corpi cangianti, libro affollato di corpi nei quali Ciabatti si infila, entra e esce, che contrae nella forma del possesso o li fa deflagrare in simboli e allegorie. Quando Livia sparisce e la si cerca negli armadi, nei cassetti, corpi che prendono la forma delle nevrosi.

E sempre a proposito di corpo: Ciabatti dà vita a un’appropriazione/risignificazione del corpo femminile, anche qui in un modo tutto suo. Seno, mestruo, utero, gravidanza, menopausa: tutto trattato senza pudori e messo a disposizione del congegno narrativo, osando, trasmutando. In particolare si concentra sul ruolo che nella maternità hanno immaginazione e desiderio, territorio nel quale si pensa che tutto debba procedere senza immaginario e desiderio personale, ma con un copione unico, virtuoso, garantito dalla natura. Tutte le madri cattive non sono altro che persone ancora piene di desidero, non disposte a farsi funzione del copione unico, virtuoso. Tutte le madri, le donne cattive sono forse madri, donne che immaginano troppo?

Sembrava bellezza è una congiura frenetica di corpi instabili, mutaforma, corpi perlopiù femminili resi precari dagli incidenti, dalla vecchiaia, dalla malattia, dalla chirurgia, ma soprattutto dalla percezione, un romanzo di corpi espansi e contratti, miniaturizzati, resi tascabili. Corpi che diventano artefatti, corpi manichino, tinti, rivestiti, moltiplicati dal desiderio e dalla vergogna.

Un’infanzia sottomessa

Opposto della scrittrice dei buoni sentimenti, dicevamo: Ciabatti scruta il fondo imbarazzante dell’abbruttimento, del degrado emotivo. Il suo tocco non è mai consolatorio, ma neppure negatore del male, del sistema di potere in cui siamo immersi. In questo nuovo lavoro mostra l’esito di un’infanzia/adolescenza vissuta in sottomissione: l’esito è il delirio di vendetta, l’odio per tutti. Le vittime a volte sono cattive, se ne hanno la possibilità ammazzano, o lasciano morire.

All’arcinota domanda di Aldo Busi che apre Seminario sulla gioventù, «Che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani?», Ciabatti sembra rispondere che restano mille immagini, vere, fasulle, stelle polari, indizi sbagliati, che si accumulano, si mescolano e fagocitano il dato di realtà. Restano gli oggetti, i grandi alleati della voce narrante, i ricettacoli dei sentimenti di cui non facciamo parola: zaino a koala, cigno, trolley, parrucche, lettino solare, tappeto azzurro. E la piscina, elemento che ricorre sempre in Ciabatti, stavolta però piscina della riabilitazione, piscina per un corpo malato, spezzato, che ha dimenticato come si nuota, come si cammina. E resta la sensazione che il dolore tra chi sta ai margini e chi sta al centro possa non essere poi così distinto.

La voce narrante di questo strano, arroventato romanzo replica la violenza, contro gli altri e contro sé stessa: sorellanza/fratellanza nell’umiliazione, nell’odio di sé. Chi siamo? Buoni o cattivi, vincenti o falliti, tutto è questione di singoli gradi di angolo, millimetri, frame: basta un secondo e sei dall’altra parte. Percezione e conoscenza sono in definitiva processi idiosincratici, prettamente espressivi, di continuo contraffatti, surclassati da nuove acquisizioni, anch’esse precarie. Le vittime in una notte diventano esseri abietti, le vittime non aspettano altro che farsi carnefici?

Il male – compiuto, subito – è necessario per la scrittura, e forse persino la colpa lo è. Sentirsi in colpa/aver subito atti colpevoli, dietro la scrittrice mitomane delle prime pagine, spunta allora l’adolescente traumatizzata ma anche l’amica ignobile, colei che ha lasciato che l’irreparabile si compisse senza intralci. E resta la madre disarmata, tutte le madri che si ritrovano a crescere un figlio senza essere cresciute, tutte le nostre madri bambine.

Non risolvere mai la tensione tra bene e male, o persistere nel rinnovarla, è l’unico modo per salvare le storie, per assicurare lo spazio autonomo della letteratura, nel quale nessuno è al sicuro e tutte le interpretazioni già date creano nuovi giochi di luce, dopo essere state date alle fiamme.

Teresa Ciabatti è autrice del libro Sembrava bellezza, edito da Mondadori

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