«Come mai questo nome?», «Io mi chiamo Mango», «E la tua mamma perché ti ha messo questo nome, le piace il frutto?», chiede Raffaella Carrà a un giovane Pino Mango negli studi di Pronto… Raffaella?. È un frammento di televisione surreale, uno dei tanti che coinvolgono la cantante, ballerina e presentatrice che era brava a fare tutto, anche le gaffe.

Mango ha un taglio di capelli anni Ottanta, è vestito come un darkettone londinese, spalline enormi, matita nera sugli occhi. È in televisione per presentare Oro, una delle sue canzoni più famose. Mango è un frutto tropicale, continua Raffaella per rimediare, lo hai mai mangiato? È buono, anche se fa ingrassare, continua, tradendo la sua routine militare da donna di spettacolo che conta anche le calorie della frutta.

In effetti, Mango è un nome indimenticabile. Suona bene, fa venire in mente il frutto, potrebbe essere un nome d’arte e invece è il cognome di un cantante lucano, di Lagonegro per la precisione, un piccolo paese in Basilicata che sta vicino sia al mare che alla montagna ma lontano da tutto, dirà sua figlia Angelina in un’intervista poco tempo dopo aver partecipato e vinto nella categoria canto del programma Amici di Maria De Filippi.

Nepotismi 

Il tema dei nepo-baby è molto caldo. Dopo aver coniato il termine nel 2022, internet ci ha fornito mappe e alberi genealogici del nepotismo americano, nello specifico quello di Hollywood e del mondo dello spettacolo: la figlia di Cindy Crawford che sfila in passerella, Timothée Chalamet che ha lo zio regista, e tanti altri ancora.

Maya Hawke, figlia di Ethan Hawke e Uma Thurman, ha raccontato al Times che se non fosse stato per le sue origini non avrebbe mai ottenuto la parte in Once Upon a Time in Hollywood. Ha detto anche che non ha problemi ad ammettere di essere una nepo-baby, che sa bene che il suo è un privilegio.

In Italia, dove ben prima di ricevere termini in prestito dall’inglese sguazzavamo nel regno delle raccomandazioni, sia parentali che di amicizia, siamo sensibili al tema ma fino a un certo punto.

Ci serve tirarlo in ballo quando dobbiamo farne una questione di principio, ci rende entusiasti quando possiamo renderlo un tratto caratteristico di una nuova personalità artistica: da Jasmine Carrisi a Pietro Castellitto, da Francesco Facchinetti tuttofare ad Aurora Ramazzotti mamma in carriera, passando per il famoso Sanremo-disastro dell’edizione «i figli di», nutriamo curiosità e interesse che si mescolano a indignazione e rifiuto, in alcuni casi anche più che legittimi, nei confronti dell’ereditarietà della carriera nello showbiz.

Così, chiaramente, non sono mancate le accuse di corsie preferenziali e strumentalizzazione del proprio cognome quando a vincere l’ultimo Sanremo è stata Angelina, figlia di quel Mango che nel 1984, quarant’anni fa, spiegava a Raffaella Carrà l’origine poco esotica del suo cognome.

Maya Hawke ha detto che tra le vie che poteva percorrere per non essere accusata di nepotismo c’era anche quella di rifarsi il naso e presentarsi ai casting aperti con un altro nome. Anche Angelina Mango avrebbe potuto rinunciare al suo cognome, ma sarebbe stato un peccato, prima di tutto perché funziona, e poi perché, senza vergogna o senso di colpa, Angelina è una figlia d’arte, che è ben diverso dall’essere nepo-baby.

Passione totale 

Descriverla come una raccomandata che è diventata famosa solo perché figlia di un cantante noto è disonesto, per svariate ragioni.

Prima di tutto, perché se la meritocrazia non esiste, ogni tanto esistono i fatti, almeno quelli che si possono mettere in scena su un palco, che sia l’Ariston, l’Eurovision o la piattaforma dei Bagni Misteriosi del teatro Franco Parenti, dove ospite da Alessandro Cattelan, Angelina ha cantato dal vivo un medley di sette minuti con i suoi singoli più famosi, tutti usciti nel giro di un anno, già sufficienti a fare di lei una popstar.

La voce, il timbro e l’intonazione, oltre che la capacità di scrivere musica, per quanto viviamo nell’èra dell’autotune e dell’intelligenza artificiale che sistema tutto, le puoi inventare fino a un certo punto. Secondo, perché è vero che chi nasce in un contesto artistico già formato vive un privilegio, ma non è altrettanto scontato che questo privilegio si traduca in qualcosa di concreto.

Di Angelina Mango si intuiscono la dedizione e la passione totale, o meglio, totàl. Ha la padronanza creativa e performativa di una persona che nella musica è cresciuta in modo tridimensionale, studiando molto ma anche imparando a istinto, per immersione. Si vedeva già quando era concorrente della ventiduesima edizione di Amici, quando cantava Se telefonando a cappella davanti a un Malgioglio estasiato che in tempi non sospetti, o quasi, aveva decretato: è una pop star internazionale, già pronta per il palco dell’Eurovision.

Ora che il suo primo vero album è uscito, Poké melodrama, l’identità è completa. Angelina è una sorta di Rosalìa dei noialtri, più gentile e intimista ma con diversi tratti estetici in comune, techno-mediterranea, flamenco-pop; e come Rosalìa usa bene il corpo, oltre che la voce.

Koiné mediterranea 

In Italia della componente fisica che può avere la musica da un po’ di anni ce n’eravamo come scordati, specialmente per quanto riguarda la scena mainstream femminile.

Noi che nella nostra televisione migliore abbiamo avuto Raffaella Carrà, non solo quella di Pronto… Raffaella? ma delle coreografie esplosive che l’hanno resa una divinità in tutto il mondo, un’artista che era un concentrato di movimento e ritmo, un fascio di muscoli scattanti e leggiadri, da un certo momento in poi abbiamo chiesto alle donne di stare ferme sul palco per essere prese sul serio.

Ora che il pop fisico avanza, con Elodie e Annalisa in prima linea, Angelina Mango si fa strada inciampando tra una gonna Etro e delle Mary Jane con un plateau ingombrante, ma restando in qualche modo coerente ai suoi passi di danza, anche mentre ruzzola nella finale di Sanremo.

Nel video del singolo melodrama sfoggia un fisico scultoreo e sudato, così come in quello del brano virale della scorsa primavera che fu Che t’o dico a fa’, dove sfrutta la koiné mediterranea di un napoletano ibridato.

All’Eurovision, poi, la sua esibizione sinuosa è stata tra le più elogiate, nonostante una settima posizione che per molti poteva essere più alta, con tanto di Imagine improvvisata nel backstage di una edizione particolarmente problematica.

Forza sul palco 

Che sia per il nome che porta, per la tragedia pubblica che ha vissuto e di cui tutti le domandano – il suo omaggio al padre con La rondine è stato un picco di eccellenza nel compianto mandato amadeusiano, la risposta migliore a tutte le volte in cui le hanno chiesto «Cosa direbbe papà?» – o per qualsiasi altra ragione per cui «la figlia di» oggi è tra le artiste più promettenti del nostro panorama musicale pop, non è fondamentale saperlo, dal momento che la realtà del suo talento è tangibile, e magari fossero tutti così i nepo-baby.

La musica in cui è cresciuta è il suo lessico famigliare, al punto di diventarlo anche in un momento drammatico come la perdita del padre che avviene esattamente in quel luogo in cui lei ora è al suo massimo della forza, il palco. E se anche avesse cambiato il suo cognome con qualsiasi altro frutto tropicale le fosse venuto in mente, è molto probabile che sarebbe esattamente dov’è adesso.

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