Le stazioni ferroviarie sono il più fantasmagorico concentrato di esseri umani immaginabile. Studenti, impiegati, turisti, forze dell’ordine, personale delle ferrovie, manutentori, baristi, commercianti, ladri, disgraziati, truffatori, manager, migranti… nessun aeroporto, lontano dal centro delle città, privo di dintorni popolati e bassifondi e aiuole circostanti, potrà mai essere antropologicamente succoso quanto una stazione.

Con il successo del romanzone di Jacopo De Michelis, La stazione, tornano finalmente di moda queste cattedrali degli spostamenti, e nella fattispecie la Centrale di Milano.

Il popolo della stazione

Il mammozzone in stile “assiro milanese” venne inaugurato nel 1931: i milanesi l’aspettavano dal 1906, anno del primo bando di concorso. Poi, indecisioni, ripensamenti, modifiche, nuovi bandi, infine nel 1924 la stazione iniziò a essere realizzata con i suoi ornamenti Liberty ma anche Art Déco e con le sue cupezze arzigogolate, che oggi ci paiono un incrocio tra Babilonia e Gotham city.

L’architetto Ulisse Stacchini, tra l’altro anche autore del progetto dello stadio Meazza (oggi al centro delle polemiche per la ventilata demolizione), progettò questo cupo intruglio cementizio stipandolo di bassorilievi, erme, mosaici, atleti nudi tipo Foro italico, garguglie, cavalli nevrili dalle froge dilatate, scudi sabaudi, oltre a giganteschi lampadari, arcate in acciaio, un padiglione reale, corridoi, passaggi segreti e significativi richiami al fascismo – in seguito accuratamente cancellati.

Mentre Stacchini riposa al cimitero Monumentale, i 24 binari della sua stazione vengono quotidianamente utilizzati da circa 500 treni, con una media di 320mila passeggeri, oltre ai non quantificati individui semistanziali buttati tra le volte delle gallerie e i giardinetti – ossia i senzatetto abituali, i migranti in attesa di avanzare nelle loro perigliose rotte clandestine, gli spacciatori e i tossici, gli alcolisti e i disagiati di ogni genere, le frotte di borseggiatrici bosniache eternamente gravide.

Treni e binari

Tutti insieme, viaggiatori e stanziali e curiosi, quotidianamente assemblati su e giù per gli scaloni e lungo i famigerati “tapis retardateur”, che hanno sostituito le scale mobili allo scopo di dirottare i passeggeri verso le occasioni d’acquisto anziché portarli direttamente ai binari, come invece facevano le scale mobili divelte durante l’ultima ristrutturazione.

Poi, scese dai treni o in attesa di salirvi, ecco le folle in visita al nuovo Mercato centrale, oppure in coda davanti alle farmacie per il tampone, dal parrucchiere o all’ufficio postale, nella gigantesca Feltrinelli, o anche lungo il tragico binario 21, utilizzato per deportare gli ebrei e i prigionieri politici antifascisti verso i campi di sterminio, luogo che dal 2013 ospita il memoriale della Shoah.

La stazione più bella

Nel frattempo, il lento trascorrere della storia, l’utilizzo di binari, gallerie e magazzini per le sfilate della fashion week (il primo fu Trussardi), la fretta dei passeggeri, l’abitudine dello sguardo hanno reso questo contenitore di umanità il degno protagonista del romanzo oggi in vetta alle classifiche di vendita, un monumento milanese, una specie di Vittoriano con binari, non più indigesto e kitsch ma addirittura ammirato.

Un santuario dell’opulenza decorativa, che il celebre architetto modernista Frank Lloyd Wright pare abbia definito «la stazione ferroviaria più bella del mondo» (tuttavia, benché riportata ovunque, sembrerebbe la solita citazione falsa).

Il Grand central

Ad ogni modo, in quel medesimo campo di iperdecorativismo monumentale c’è di meglio, e ogni volta che guardo la Centrale penso alla madre di tutte le stazioni, anzi di tutti i terminal (ossia le stazioni dove i binari si interrompono e il treno deve ripartire al contrario), il Grand central di Manhattan. Molti di voi l’avranno visitata, pur senza avere alcuna intenzione di salire a bordo degli scassati treni americani.  

Grand central è la più grande e sfarzosa stazione del mondo. La più letteraria e la più cinematografica, nel senso che compare in infiniti film, serie televisive, spot pubblicitari, romanzi, saggi, canzoni e persino poemi.

Il grattacielo

Il Pan Am building a Manhattan, New York City, in una foto del 1978 (AP Photo)

Rappresenta anche il debutto degli americani nel campo della conservazione dei beni culturali. Nel 1956 la sua esistenza venne minacciata da un grattacielo progettato da Ieho Ming Pei, l’archistar cui si deve la famosa piramide di vetro piazzata nel cortile del Louvre.

L’Hyperboloid avrebbe dovuto svettare per 102 piani, e la sua costruzione comportava di radere al suolo la stazione. Un’estenuante battaglia giudiziaria impegnò tra gli anni Sessanta e Settanta la città di New York e la compagnia ferroviaria che possedeva la stazione.

Al posto del grattacielo di Pei, resistente alla bomba atomica (così veniva pubblicizzato), su Park Avenue sorse invece il meno svettante Pan Am Building (oggi MetLife Building), ispirato a un progetto di Le Corbusier del 1938, ma anche al Pirellone di Milano, costruito accanto alla Stazione centrale su progetto di Gio Ponti e Pier Luigi Nervi. Tout se tient. Morto Le Corbusier, il progetto definitivo del grattacielo Pan Am fu invece opera di Walter Gropius e dell’architetto italiano Pietro Belluschi.

Un luogo storico

Bisogna aggiungere che a Manhattan, nel 1963, era stato demolito l’edificio in stile Beaux-Arts che sovrastava i binari sotterranei della vicina Penn Station (quella dove oggi si prendono i treni per Washington), episodio che aveva suscitato un acceso dibattito sulla salvaguardia degli edifici storici della città.

I newyorchesi vollero evitare che succedesse anche al Grand central terminal, la cui esistenza veniva periodicamente minacciata da progetti di grattacieli avveniristici che avrebbero comportato la distruzione della sala d’attesa e comunque una totale eclisse della sua facciata.

La stazione era in perdita, sporca, malridotta, piena di infiltrazioni, mentre la costruzione di grattacieli era molto redditizia per le casse della città. Il conflitto finì davanti alla Corte suprema e molti personaggi del jet set e della cultura intervennero in difesa di Grand central, tra cui addirittura Jackie Kennedy. Infine, nel 1967 la stazione divenne New York City Landmark (monumento) e nel 1976 fu inclusa nel registro dei luoghi storici.

Una stazione monumento

Ma torniamo alla sua origine: piazzata all’incrocio tra la 42esima e Park Avenue venne finanziata dall’armatore Cornelius Vanderbilt, l’uomo più ricco d’America, che si fece raffigurare da una statua monumentale posta davanti all’ingresso della stazione, in puro stile zio Paperone/Ebenezer Scrooge: come il personaggio di Disney e come il suo prototipo, l’avaro riccastro protagonista di Canto di Natale di Dickens, indossa un cappottone con collo e polsi di astrakan, ossia il pelo del tenero karakul, l’agnellino nero dell’Asia Centrale. Prima o poi, anche le pellicce diverranno un’offesa vibrante, e la statua verrà eclissata in qualche magazzino.

Di Vanderbilt fu l’idea di celebrare la propria grandeur con l’edificazione di una stazione monumento. Dapprima ci fu il Grand central depot, inaugurato nel 1871; poi una serie di ammodernamenti e colossali ristrutturazioni e scavi, con il passaggio dai treni a vapore a quelli elettrici e con la creazione di un intricato sistema di rampe e binari sotterranei, che permettevano di far defluire e confluire i viaggiatori senza scontrarsi. Impilare binari nel sottosuolo, permetteva di risparmiare spazio, dati i costi stratosferici dei terreni circostanti la stazione, che impedivano l’ampliamento in superficie.

Due milioni e mezzo di metri cubi di terreno vennero dunque rimossi anche a forza di ripetute esplosioni, per frantumare lo scisto, che è la pietra durissima su cui poggia New York. Come raccontano Stella Cervasio e Alessandro Vaccaro nell’esaustivo Grand central dream (Francesco D’Amato editore), dove la roccia è vicina alla superficie si sono potuti costruire i grattacieli, e “si passa dai cinque metri di profondità di Times Square agli ottanta del Village, che per questo motivo non ha torri ma solo edifici bassi”.

Una persona sola

La protagonista di Pretend It’s s a City di Martin Scorsese (2021), la bastian contraria Fran Lebowitz, eccepisce su qualsiasi cosa sia rappresentata nel plastico di New York, e invece si accalora difendendo Grand central terminal: «È così bello perché l’ha costruito una persona sola. Oggi un edificio di queste dimensioni non verrebbe mai realizzato da una persona sola, con una sola sensibilità. Erano i suoi soldi, e li usò».

Nel 1913 Grand central station acquisì infine l’aspetto che le conosciamo e fu inaugurata alla presenza di 150mila newyorchesi festanti e incuriositi, con la partenza del primo Boston Express. Oggi ci passano 750mila visitatori al giorno, che arrivano a picchi di un milione nei giorni delle feste. Di mattina, nell’ora dei commuters, arriva un treno ogni 58 secondi. Ci sono 44 banchine e 67 binari, e tutto questo per poi non andare troppo lontano, perché gli americani non hanno l’alta velocità e dunque preferiscono gli aerei, usando il treno solo per brevi spostamenti da pendolare, nei dintorni di New York.

Una piazza coperta

Lo splendore attuale è anche dovuto alla poderosa ristrutturazione iniziata nel 1994, con 200 milioni di dollari che strapparono la stazione al degrado: le gallerie sotterranee divenute rifugio di plotoni di senzatetto, l’inquinamento che aveva corroso i marmi, la volta stellata dell’atrio piena di infiltrazioni divenuta scura per la nicotina esalata dalle sigarette dei pendolari, i giganteschi lampadari anneriti, i rifiuti e le deiezioni accumulati in ogni meandro dei sotterranei.

La zona più famosa di Grand central è l’immane atrio, il Main concourse, con il famoso orologio a quattro versanti accanto cui ci si dà appuntamento per evitare di smarrirsi nel flusso formichinesco.

Una gigantesca piazza coperta, con l’altissimo soffitto che simula il firmamento, un cielo stellato che nelle intenzioni dei costruttori doveva essere azzurro come quello del sud Italia. 2.500 stelle in foglia d’oro, di cui 59 illuminate da led.

Da una piccola ghianda

Cornelius Vanderbilt (originariamente era il cognome olandese van der Bilt, cioè proveniente dal villaggio di Bilt), inventò per la propria dinastia uno stemma gentilizio, con ghiande e foglie di quercia («da una piccola ghianda nasce una forte quercia»).

Così, se passeggiate per Grand central potete cogliere ovunque, su orologi e sovraportici, negli ascensori e sui sostegni delle lampade, ghiande e foglie di quercia, oltre a fregi in tema di trasporti, con ali e ruote di treni. Tutti scolpiti o fusi da artigiani francesi. Sulla facciata, sopra la testa della statua di Cornelius, ci sono un Mercurio, una Minerva e un Ercole, a rappresentare velocità, forza, sapienza. C’è anche il più grande orologio di Tiffany mai concepito.

Buona parte dei marmi, quello della doppia rampa che unisce Main concourse e biglietterie, le pareti d’accesso alla stazione e quelle del piano interrato dove si trovano negozi e ristoranti, provengono da Botticino, cioè da Brescia, proprio come il marmo del Vittoriano.

Oggetti smarriti

Una foto del 1962 (AP Photo/Robert Kradin)

Altro passaggio di rilievo sono le “volte Gustavino”. Questi Gustavino, liguri approdati a New York nel 1881, autodidatti, avevano inventato un sistema resistente al fuoco e molto rapido per assemblare laterizi formando delle volte.

Il mitico Oyster Bar & Restaurant della Grand central, la famosa Galleria dei sussurri (fermandosi alla diagonale di un arco si bisbiglia qualcosa e viene ripetuto lungo tutto il corridoio) hanno il tipico intarsio a spina di pesce che fu un marchio della Gustavino Company.

L’enorme terminal è visitabile con gite organizzate dalla rivista Architectural Digest, lungo le zone P (platforms, i binari del livello inferiore), L (le gallerie dei ristoranti del piano inferiore), U (il piano del Main Concourse) e B (la Balcony, con il famoso Campbell Bar in stile medieval-rinascimentale-neogotico italiano con gigli fiorentini. Vi si trova anche il Cipriani Dolci, in pratica una delle cinque succursali newyorchesi dell’Harry’s Bar). Al quarto piano c’è poi il Vanderbilt Tennis Club, dove potete prenotare la vostra ora di tennis o frequentare corsi tenuti da costosi trainer. I piani 2, 3, 5 e 6, riservati agli uffici, non sono visitabili.

Il lussuoso foyer che conduce all’immensa Vanderbilt Hall, la sala d’attesa poi divenuta spazio per esposizioni e party, è intitolato a Jacqueline Kennedy Onassis, per i suoi meriti di aizzatrice della mobilitazione pubblica che salvò Grand Central dalla demolizione.

C’è poi, vicino il reparto Lost&Found, deposito dei circa 20mila oggetti smarriti ogni anno dai viaggiatori. Come ovunque nel mondo vi approdano oggetti comuni e oggetti che è assurdo perdere. Anche una gamba di legno. Dal 1939 al 1964, Grand central ha ospitato gli studi della Cbs da cui l’anchorman più famoso d’America, Walter Cronkite, declamava le Evening News.

E poi botole, passaggi segreti come quello che permetteva a Franklin Delano Roosevelt di arrivare al binario 61, con la sua limousine blindata caricata assieme a lui sul treno, senza farsi vedere zoppicante per la poliomelite, approdando direttamente alla lussuosa suite del Waldorf Astoria attraverso i sotterranei. Proprio in quel sotterraneo, chiuso dagli anni ’50, Andy Warhol organizzò The Underground Party, con i protagonisti della Factory. In una lista di odori e soprattutto puzze specifici di New York, Warhol mise pure il tipico olezzo pervaso nei 19 ettari del Terminal.

Al cinema

Dopo tutte queste descrizioni, arriviamo alla ricchezza di rappresentazioni cinematografiche in cui è finita Grand Central. Se la nostra Stazione Centrale viene ricordata soprattutto per la scena di Totò, Peppino e la... malafemmena, con i protagonisti che scendono dal treno intabarrati come se fossero a Leningrado e i viaggiatori li osservano stupefatti per le incongrue pellicce e colbacchi, Grand central è finita in thriller, commedie sentimentali, fantasy, serie televisive…

Da Howard Hawks ad Alfred Hitchcock, da Francis Ford Coppola a Terry Gillian, da Brian De Palma e Sergio Leone e Martin Scorsese, l’immane atrio stellato con la luce che filtra dai finestroni, le scale mobili, gli anfratti, i telefoni a gettone, i binari sono stati lo scenario di amori, abbandoni, fughe, sparatorie.

Tra i tanti film, quelli di Hitchcock sono decisivi: Io ti salverò (1945) e Intrigo internazionale (1959). Ma poi anche l’angosciante scena finale ambientata da De Palma lungo le scale mobili di Grand central in Carlito’s Way (del 1993). Al Pacino non riuscirà a Escape to Paradise, come strilla un cartellone pubblicitario, imbarcandosi sul treno per Miami per ricominciare da capo in un’isola dei Caraibi, lontano dal suo passato da criminale.

«Ultimo giro di bevute, il bar sta chiudendo» sussurra Carlito sulla barella, mentre muore dopo essersi beccato due pallottole. E poi i film di animazione, con gli animali in fuga dallo zoo di Madagascar (2005), e i balli di La leggenda del Re Pescatore di Gilliam (1991), e Il padrino (1971) e Cotton Club (1984) di Coppola, ma pure il polpettone Innamorarsi di Grosbard, con Streep e De Niro, entrambi sposati con prole, che si innamorano sul treno pendolari. Immancabile il Dan Draper di Mad Men, che si alcolizza al Campbell bar. Eccetera eccetera.

Nei libri

Quanto alla narrativa c’è quel noiosone cervellotico di Paul Auster, che utilizza Grand Central come fondale nella sua Trilogia di New York, ma c’è anche il fondamentale Inverno alla Grand Central – Racconti di strada (nottetempo) firmato dal pupillo di Kurt Vonnegut, Lee Stringer.

Ex pubblicitario finito tra gli “sleeping dogs” buttati sui cartoni e fatti di crack nei sotterranei della stazione, divenuto strillone e poi collaboratore dello street news, lo Scarp de’ tenis newyorchese, il giornale degli homeless, Stringer racconta la sua vita barbonica, tra arresti, spaventi, dormitori, botte, overdose, negli anni Ottanta, prima della ristrutturazione di Grand Central.

Con i diritti del libro rovesciò la sua sorte, e oggi pare che viva felicemente in campagna, sano e salvo. Altro libro da non perdere è Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto (SE), di Elizabeth Smart. Un unicum, un poema in prosa tradotto da Rodolfo Wilcock e lanciato in Italia da Cesare Garboli e Natalia Ginzburg, con la storia lacrimosa ma affascinante della via crucis di una ventenne che, in preda a estasi erotica e ossessione amorosa, si unisce a un uomo sposato e pure omosessuale; insieme vagabondano per l’America.

Li arrestano, lei è incinta, lui tenta il suicidio e poi la molla e torna dalla moglie. La poveretta va a Grand central station, si siede e piange. «Preferisco le pannocchie di granoturco ai genitali» conclude genialmente dopo aver esaurito tutte le sue lacrime. Effetto taumaturgico della stazione.

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