“Demoni” di oggi e fantasmi di ieri. Il dramma di Simone Biles, la campionessa statunitense di ginnastica artistica che si è ritirata dalle Olimpiadi di Tokyo per traumi interiori che somigliano tanto ad angosce consumate dal tempo, riaccende le luci sulle controverse vicende che hanno coinvolto qualche anno fa lei e altre giovani connazionali colleghe: storie di abusi e molestie, di sofferenze capaci di scavare nel profondo di atlete dorate e inarrivabili. C’era anche Simone Biles tra le centinaia di ragazze che denunciarono un sistematico meccanismo di abusi perpetrati dalla Usa Gymnastics, la federazione della ginnastica statunitense. Una storia torbida e inquietante portata all’attenzione da Atleta A, documentario disponibile su Netflix.

Denuncia e inchieste

Il racconto dello sport nelle piattaforme streaming è sempre più vario e ricco, segno di una vitalità che passa non soltanto dall’evento live, ma anche dalla sua rievocazione, dallo sguardo in profondità su tutto ciò che fa da contorno al gesto tecnico. Linguaggio che per definizione si fa dramma e mitologia, come già ci aveva insegnato Roland Barthes, lo sport sposa perfettamente le logiche del documentario (anche seriale), dove la ricostruzione di una vicenda atletica si combina con il contesto, l’affresco storico, sociale o comunicativo che la sorregge.

Memoria, eroi e sfide epiche del passato, segreti e “dietro le quinte” dei campioni più amati dai fan, racconto in presa diretta di successi e sconfitte, trionfi e cadute. In questo quadro articolato, un nuovo filone è rappresentato dalla denuncia, espediente in cui lo sport incrocia aspetti legali e invita a riflettere sull’etica, elemento che sta alla base, almeno sulla carta, di ogni disciplina e della sua organizzazione. Atleta A ne è l’esempio più lampante e drammatico; è un pugno nello stomaco, un resoconto minuzioso di uno scandalo che ha lambito i più alti vertici dello sport americano in cui si mescolano ricordi, interviste, filmati d’epoca e dove volteggi e parallele puntellano il lungo scorrere di una cronaca che si dipana tra redazioni di giornali e aule di tribunale.  

La particolarità di Atleta A è la sua costruzione narrativa in cui si intrecciano almeno tre filoni principali, in una sovrapposizione non solo temporale, ma anche estetica e di rappresentazione, che conduce lo spettatore in un crescendo di indignazione, stupore, messa in discussione di alcuni valori dello sport e riaffermazione dei suoi insegnamenti morali più profondi. Tutto ha inizio con le parole di Maggie Nichols, campionessa della squadra nazionale di ginnastica, che nel 2015 denuncia le molestie. Le accuse sollecitano l’attenzione della redazione giornalistica dell’IndyStar, quotidiano locale dell’Indiana che, grazie al lavoro di firme come Steve Berta, Marisa Kwiatkowski, Mark Alesia e Tim Evans, scoperchia un sistema di abusi, paure e silenzi. E così la città di Indianapolis, dove «la ginnastica è un’istituzione», diventa il crocevia di inchieste, indagini e soprattutto nuove dichiarazioni di ex ginnaste.

Alla testimonianza della Nichols (che verrà esclusa dal team in partenza per le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016) ne seguono altre: decine, poi centinaia (si arriverà a 500 casi), una valanga che s’ingrossa precipitosamente coinvolgendo senza distinzione alcuna atlete giovanissime a inizio carriera e campionesse affermate di periodi differenti. Alcune di queste, come Rachel Denhollander, Jamie Dantzscher o Jessica Howard, compaiono nel documentario con interviste e personali ricostruzioni; tutto conduce alla figura di Larry Nassar, medico della squadra nazionale e professore dell’Università del Michigan condannato per abusi sessuali, che s’intuisce essere la punta dell’iceberg di un sistema sommerso, quello di un’associazione «che preferisce proteggere i suoi coaches e non le sue bambine» e che fa capo a Steve Penny, ambiguo numero uno della Usa Gymnastics che verrà arrestato nel 2018.

Sacrifici e sofferenza

A queste due linee narrative inevitabilmente intrecciate (la denuncia delle vittime e l’inchiesta giornalistica), il prodotto firmato da Bonni Cohen e Jon Shenk aggiunge un affondo che sposta il contenuto da una dimensione di cronaca giudiziaria a una riflessione in linea con le caratteristiche del documentario sportivo nell’epoca dello streaming, e cioè l’immersione nei dettagli tecnici ed evolutivi della disciplina. In Atleta A, infatti, scopriamo i tratti più significativi della trasformazione della ginnastica statunitense, i turning points che l’hanno fatta diventare successo globale e strumento di business.

Ai metodi tradizionali delle origini, si sostituisce progressivamente un approccio scientifico e spietato, con un notevole abbassamento dell’età di reclutamento; la svolta avviene sul finire degli anni Sessanta e si consolida con l’esplosione del fenomeno Nadia Comăneci alle Olimpiadi di Montreal del 1976. La giovane ginnasta romena diventa l’idolo delle ragazzine occidentali, il modello da imitare; il contesto è quello della Guerra fredda e per gli Stati Uniti eccellere nella ginnastica, come in altri sport, è un imperativo non solamente sportivo.

All’inizio degli anni Ottanta, Bélá e Márta Károlyi, coppia di allenatori romeni artefici degli esordi della Comaneci, si stabiliscono negli Stati Uniti chiedendo asilo politico; i due istituiscono un programma di formazione duro e rigoroso che porta in breve tempo la ginnastica statunitense a livelli altissimi. Dietro le luci delle Olimpiadi, quel momento in cui «lo sport più duro del mondo trova il suo posto sul palcoscenico più grande del mondo», si nasconde però un universo di sofferenza, di lontananza famigliare, di metodi asfissianti che sfociano nell’abuso, accusa per cui gli stessi Károlyi saranno travolti nell’ambito del processo a Nassar.

Sulla scia del movimento Me Too, il documentario Atleta A squarcia il velo su un ambiente apparentemente incontaminato rivelando un sistema di relazioni tossiche in cui il sacrificio non è solo quello sportivamente inteso della fatica per l’ottenimento di un risultato, ma anche quello più difficile da accettare e digerire: «Sacrifichiamo i nostri giovani pur di vincere». In un racconto incalzante di poco meno di due ore, il docufilm è una preziosa gemma di verità, il riconoscimento di un raffinato e penetrante lavoro di giornalismo investigativo, arricchito da una non scontata opera di scavo sul contesto storico e tecnico del mondo della ginnastica.

La parabola di Simone Biles, con i suoi “demoni” e i suoi tormenti di ventenne imbattibile e fragile, aiuta a guardare al lato oscuro del successo, il “saccheggio” di una generazione, il prezzo che, talvolta, tutti noi paghiamo inconsapevolmente per continuare a lasciarci sedurre da quella mitologia contemporanea che chiamiamo Olimpiadi.

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