«Consiglierei a chi la pensa così di buttarsi da una rupe».

«Io non capisco perché gli autori di questi articoli non procedono con l’eutanasia, dopo averli scritti».

«Fatti curare».

«Asini e cagasotto».

«Quella pugnetta mancata che ci avrebbe evitato un articolo inutile».

«Drogatevi di meno. O di più. Insomma qualunque cosa che vi ripigli».

«La vostra generazione è in lutto perché voi più del McDonalds, o dei videogiochi, dei social cretini non comprendete. Fatica, dedizione, sacrificio, rinunzia sono tutti termini cancellati dal vostro vocabolario».

«La vostra estinzione sarebbe un bene per tutti ma invece di cancellare soltanto i vostri figli dal progetto, potreste considerare pure un’altra scelta che azzera la vostra impronta ecologica: domani mattina spogliatevi, infilatevi nel cassonetto dell’umido. Passa il comune, pensa a tutto lui» (questo l’ha scritto un poco noto politico di destra, ed è il mio preferito).

Quelli che avete appena letto sono solo alcuni degli oltre 400 commenti appollaiati sotto a un tweet, postato dall’account di questo quotidiano e contenente il link a un articolo.

Il pezzo in questione l’ho scritto io, si intitola La mia generazione è in lutto per i figli che non avrà mai e aveva un obiettivo semplice: dire che la mia generazione, poco più e poco meno che trentenni, si sta interrogando se fare dei figli abbia senso. Il nostro pianeta sta morendo, la crisi climatica è vicina a un punto di non ritorno e la domanda, nella nostra testa, è sorta spontaneamente, e in modo genuino: se la situazione è destinata a peggiorare, e lo è, per quale ragione dovremmo mettere al mondo altri esseri umani, che tipo di esistenza potremmo mai dare loro? È un quesito facile, che riguarda la mia generazione – non tutta, no, ci tengo a sottolinearlo, questo: non voglio assurgermi a nulla, solo riportare il dubbio che tanti di noi hanno. Eppure chi ha commentato, che temo il pezzo non l’abbia letto e si sia limitato al titolo, ha reagito con una rabbia che posso interpretare solo con la paura di chi si vede attaccato. Perché però si è innescato questo meccanismo?

La spiegazione più semplice è che si tratti di banali leoni da tastiera («stamattina non ho niente da fare, allora mi tuffo sui social e mollo un po’ di bile qui e lì»), temo, però, ci sia dell’altro, che dietro questi commenti ci siano ragioni più profonde.

Lo scontro

È qualcosa a cui ho pensato quando, bazzicando i profili dei commentatori, ho notato che molti hanno un’età compresa tra i cinquanta e i settant’anni: sono parte della vecchia guardia, insomma. E lì mi si è accesa la lampadina, e ho realizzato: in atto c’era uno scontro generazionale. Da una parte della barricata noi appena arrivati, la cui percezione del mondo è di un edificio che va a fuoco, dall’altra loro, che ci vedono come lamentosi e viziati ragazzini senza spina dorsale.

Le generazioni non riescono a comunicare ed è qualcosa di fisiologico, basta tornare indietro nel tempo per capirlo: il passaggio di testimone non è mai semplice. Da una parte ci sono i più giovani, che si lamentano di ritrovarsi tra le mani una situazione difficile sotto tanti punti di vista e che chiedono che vengano apportate modifiche a un mondo che necessita di nuovi assetti, nuove politiche più adatte ai tempi, e agli stili di vita. Dall’altra i meno giovani, che hanno la sensazione d’essere redarguiti sul lavoro svolto finora, che si vedono recriminati sebbene ai propri figli abbiano dato tutto ciò che era nelle proprie possibilità e che dopo un’esistenza di sacrifici si sentono dire che le cose, così come sono, non vanno comunque bene. Non è niente di nuovo: succede ormai da tantissimi anni. Le generazioni, appunto, non sanno comunicare tra di loro. Io, però, un tentativo io comunque voglio farlo.

L’immaginario

Chi siamo per voi, noi quasi trentenni? Siamo i bamboccioni. Quelli che stanno infrattati in casa di mamma e papà per troppo tempo, che nella classifica europea lasciano casa tra gli ultimi e non ne vogliono sapere nulla di diventare adulti, cominciare una vita. Siamo i rompicoglioni. Quelli che si lamentano quando viene offerto loro un impiego dalla paga bassa perché la gavetta non la vogliono fare e pretendono di trovare la tavola già apparecchiata. Siamo i molesti.

Quelli che in un giorno qualsiasi, invece di cercarsi un lavoro, montano le barricate in autostrada, o imbrattano, vandalizzano i monumenti (il ministro Matteo Salvini, parlando degli attivisti di Ultima generazione, ha scritto: «Quelli che dicono sempre NO a tutto, quelli del NO ad ogni opera umana per mettere in sicurezza i fiumi, i laghi, i boschi, le campagne e le città. Sono un danno per l’ambiente e per l’Italia. Vandali, patetici con molto tempo libero»).

Siamo gli immaturi. Quelli che preferiscono farsi uno Spritz a fare un figlio, e che pur di non farne, di pargoli, danno nomi propri di persona ai loro cani; cose di cui è certa la ministra Eugenia Roccella. Siamo i viziati. Quelli che si lagnano degli affitti troppo cari e, campeggiando come imbecilli in università, pretendono che venga fatto qualcosa.

Secondo voi, noi siamo questo.

La realtà

Niente di più distante dalla realtà. Generazione crisi, ecco cos’è la nostra. Una generazione cresciuta nel segno della crisi. Economica, lavorativa, politica e ambientale. Provateci, voi a edificare il palazzo della vostra esistenza poggiando su delle basi così labili, costruendovi su fondamenta che traballano a causa di crisi, ormai, strutturali. Non soltanto è difficile concretamente, ma anche psicologicamente.

Siamo quelli che lasciano il nido tardi, è vero: dopo di noi, in Europa, solo altri cinque paesi. Ma non è un dato che dipende da una nostra mancanza di volontà ( cosa vi fa credere che proviamo il desiderio di rimanere incastrati in casa dei nostri genitori fino a trent’anni?), proprio no: dipende dall’assenza di certezze economiche. Secondo Il Sole 24 ore, nel 2020 la retribuzione netta a un anno dalla laurea è, in media, di 1.270 euro, secondo il New York Times, la Generazione Z – quella subito successiva alla mia – non riesce a permettersi di pagare l’affitto di una stanza: una stanza, e nient’altro.

Siamo quelli che si lamentano quando viene offerto loro un impiego dalla paga bassa, è vero, però – perdonatemi se lo sottolineo – qui s’innesca un cortocircuito nel vostro stesso ragionamento: accettassimo di lavorare con un contratto a tempo determinato, per una paga che, a conti fatti, non ci consentirebbe di vivere soli la possibilità di lasciare il nido non l’avremmo: un cane che si morde la coda.

Siamo quelli che montano le barricate in autostrada e imbrattano i monumenti, è vero, però questo pianeta lo abitate anche voi, mi pare, e se cerchiamo di attirare la vostra attenzione sulla crisi climatica dovreste esserci solo grati; a tal proposito, ho rivisto Dont’ look up, di recente: dategli un’occhiata, e capirete la frustrazione che sentiamo dentro.

E dunque no, ministro Salvini: il danno per l’Italia non sono i manifestanti di Ultima generazione, ma chi, come una grande parte del governo di cui lei fa parte, si ostina a negare che la crisi climatica esista, che si debba fare qualcosa di concreto e subito. Siamo quelli che preferiscono uno Spritz a un figlio, è vero, e qui, in tutta sincerità, non saprei neanche bene che dire ché il paragone tra i due, il cocktail e il pargolo, mi annienta.

Siamo quelli che si lagnano degli affitti troppo cari, è vero, ma credo vi sarebbe sufficiente cercare una stanza, o un monolocale, da prendere in affitto a Milano o a Roma per rendervi conto voi stessi di quanto sia difficile, e costoso.

Di recente, una mia amica si è messa sulle tracce di una camera da prendere a Nolo, a Milano: prezzi alle stelle per posti osceni. Monolocali in cui si può far a stento un giro su sé stessi a ottocento euro, appartamenti con tre o quattro stanze e ciascuna a seicento, 700, camere da dividere con un’altra persona a 500: costo da far rientrare in stipendi che di rado superano i 1200 euro, appunto. Siamo quelli che si lagnano, è vero, però la situazione non è semplice.

Il dolore

Quel che fa male davvero, ad ogni modo, è il vostro rifiuto d’ascoltarci e di cercare, quantomeno cercare, di capirci. Fa male, ci fa arrabbiare. Quindi sì: siamo anche arrabbiati.

Il 7 febbraio scorso ho partecipato a la trasmissione Le Iene recitando un monologo scritto apposta. «Una generazione paralizzata, la nostra, nata nel segno della crisi, destinata a non avere un futuro. Per questo siamo arrabbiati: crediamo di non avere un domani», dico a un certo punto, e penso che il centro dell’intera faccenda sia proprio questo. Sentiamo il terreno franarci sotto ai piedi, e vi chiamiamo, voi delle generazioni precedenti, nella speranza che possiate aiutarci, indicarci una via, comprenderci o pure soltanto accettarci. Ma niente. Non succede niente del genere. Ci credete nemici, allora attaccate; non è vittimismo ma è così che va.

La verità, però, è che di noi sapete solo ciò che voi stessi vi raccontate, e, considerando che l’ignoranza – il non conoscere l’altro – alimenta la paura, tramutandola in odio, permettetemi di dirvi che vi trovate dalla parte sbagliata della Storia e non ve ne siete neanche resi conto.

Non siamo i nemici, siamo i vostri figli.

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