Da oltre tre decenni la Francia ha istituzionalizzato le aree urbane che richiedono un intervento pubblico sul piano economico, sociale, educativo, della sicurezza.

Nei circa 1500 quartieri oggi definiti “prioritari” (Qpv) vivono circa 4,9 milioni di persone, il 7 per cento della popolazione totale. Nella sola Île-de-France, regione che comprende Parigi e le aree circostanti, più di 1,5 milioni di persone risiedono in 272 Qpv.

Dato significativo, nella capitale i 20 quartieri prioritari sono popolati da appena 143 mila persone, numeri che rivelano, crudamente, come le periferie siano davvero altro dalla città: anche se molti parigini vivono in unità urbane (UU) che comprendono almeno una zona classificata come Qpv. L’area limitrofa alla capitale con più “prioritari”, 63, è quella Seine-Saint Denis, che conta 620 mila persone.

Nei “prioritari” la popolazione di origine straniera è il doppio di quella degli altri quartieri: un terzo di essa proviene dal Maghreb o dall'Africa subsahariana, il triplo che nel resto del territorio nazionale. Si tratta di una popolazione giovane: i residenti sotto i 25 anni sono quasi il 40 per cento.

Nonostante il principio della mixitè sociale, sancito dalle leggi del 1991 e del 2000, alcuni quartieri di periferia sono diventati, nel corso del tempo, concentrati di popolazione svantaggiata, caratterizzati, rispetto al resto del territorio nazionale, da maggiori indici di disoccupazione e devianza e minore livello di istruzione.

Alla fine dei primi due decennio del XXI ° secolo, il reddito medio nelle aree “sensibili” risulta meno della metà di quello del resto della popolazione; più del 30 per cento dei loro abitanti (40 per cento nella fascia 18-24) vive sotto la soglia di povertà mensile contro il 12 per cento nel resto del Paese: indicatore di esclusione che cresce proporzionalmente nelle famiglie numerose o monoparentali.

Il tasso di disoccupazione tocca il 23,4 per cento contro l’8,9 per cento nelle zone non classificate come problematiche; la disoccupazione giovanile è più che doppia, il 33 per cento anziché il 15 per cento. Anche gli indicatori formativi rilevano queste differenze. Nelle banlieues si riscontra un più basso numero di diplomati, il 20 per cento contro il 32 per cento a livello nazionale; un più alto tasso di analfabetismo, il 15 per cento, contro il 7 per cento del resto del paese; un più elevato abbandono scolastico.

In questi quartieri molti giovani - 1 su 7, che diventano 1 su 5 per i non diplomati – non sono né occupati, né in formazione, né impegnati in percorsi scolastici. Quanto ai reati che creano allarme sociale, sono in questi quartieri più elevati che nell’insieme del territorio nazionale.

Diversità e stigma

È in questo difficile contesto che vivono molti degli immigrati originari dall’Africa, insediatisi nelle aree periferiche per effetto dei legami tipici delle reti migratorie e perché qui è maggiore la possibilità di sistemazione in alloggi popolari a fitto moderato, abbandonati dalle classi medie, trasferitesi altrove negli anni Sessanta.

A partire dagli anni Ottanta le complesse problematiche emerse nelle aree urbane di periferia ha indotto la Francia a varare una “politica della città” mirata a risolvere alcuni dei problemi più acuti che le caratterizzano. Scelta avviata da Mitterand e confermata dai governi di diverso orientamento voluti dai suoi successori.

È in questi anni che il termine banlieue comincia a trascendere il suo originario significato spaziale, per assumere quello sociale sinonimo di problemi di difficile soluzione, di segregazione urbana, di aree da evitare a causa della delinquenza.

La stessa, mutevole, classificazione dei quartieri periferici in sigle più o meno asettiche, comunque rivelatrici dell’identità politica di chi le propone – zone sensibili, zone di educazione prioritaria, quartieri prioritari - non muta certo questo diffuso immaginario collettivo. Alimentando, anche semanticamente, un ulteriore distacco delle periferie dal resto della società.

Distacco ormai senso comune, tra vecchi e nuovi residenti dei quartieri “difficili” , sempre più convinti che le diseguaglianze che impediscono integrazione e mobilità sociale non siano facilmente sormontabili. Tra quanti vengono dall’Africa, poi, si fa strada l’idea che l’esclusione sia rafforzata da marcatori etnici e religiosi, quali essere maghrebini, subsahariani e musulmani.

Stigma lievitato, in particolare, dopo la “rivolta delle periferie” che, nell’autunno del 2005, investe non solo l’area metropolitana parigina ma molte città francesi. Sommosse, caratterizzate da un’esplosione di violenza senza precedenti , che fungono da spartiacque nella società francese, facendo balenare il fantasma del “nemico interno”. Più che gli incendi delle auto, sono quelli dei commissariati e delle scuole, ad allontanare buona parte dei francesi da quanti vivono in banlieue e a mettere in imbarazzo anche le associazioni che si battono contro il razzismo.

L’espressione “racaille”, feccia, rivolta dall'allora ministro dell’Interno Sarkozy ai rivoltosi, in larga parte giovani di origine nordafricana e subsahariana, non fa che accentuare la distanza tra vecchi e nuovi francesi, e tra i primi e gli immigrati di recente ingresso.

Dopo il 2011, lo stigma acquisisce un’ulteriore declinazione negativa, di matrice politico-religiosa: si fa strada l’equazione immigrazione/ insicurezza/ islam/ terrorismo. Le stragi di Tolosa, poi quelle di Parigi a Charlie Hebdo e al Bataclan, compiute da giovani radicalizzati di origine maghrebina o subsahariana; il massiccio esodo dalle banlieues, verso Siria e l’Iraq, di giovani di analoga origine che raggiungono le fila dell’Isis o al Qaeda, certifica minacciosamente l’insanabile rottura di quegli stessi giovani con la Francia. Rottura sfociata non solo nel volontario rogo dei passaporti diffuso in Rete, che marca, simbolicamente, il loro rifiuto della Rèpublique e la speculare promessa di lealtà allo Stato islamico, e culmina, ben più drammaticamente, negli attacchi in territorio francese opera di jihadisti interni ed esterni.

Vicende che alimentano lo stigma e sprofondano gli abitanti delle banlieue, anche la maggioranza che nulla ha a che fare con simili derive ideologiche e religiose, in un ulteriore stadio di “esilio” interno. La separatezza pare ormai l’inevitabile destino delle periferie.

La rivolta dell’estate del 2023, che esplode dopo l’uccisione a freddo di un diciassettenne francese con genitori di origine marocchina e algerina, colpito da un agente di polizia, vede come protagonisti soprattutto minori di origine africana, in larga parte senza precedenti di polizia, e prende a bersaglio, ancora una volta, i simboli dello Stato: scuole, commissariati, municipi.

Generando nella discussione politica una nuova dimensione dello stigma, solo apparentemente impolitica: il ruolo delle famiglie, “incapaci di badare ai loro figli“.

A conferma che, accanto al tema dell’esclusione, della discriminazione, della diseguaglianza, si vuole discutere della questiona della mancata integrazione , esito ritenuto non attribuibile solamente agli errori degli autoctoni o di chi ha accettato le regole repubblicane e la cultura dominante.

Stratificazione del risentimento

Il risentimento è lo stato d’animo prevalente tra i giovani africani delle periferie . In primo luogo nei confronti delle istituzioni, di chi le rappresenta quotidianamente: poliziotti, insegnanti, assistenti sociali, personale comunale. Ma anche nei confronti degli altri svantaggiati che vivono loro accanto a loro.

Come spesso accade nella storia delle migrazioni, i quartieri popolati da immigrati sono segnati da conflitti che assumono connotazioni etniche: mentre gli autoctoni e quanti vivono lontani dalle banlieues, guardano a queste come un blocco monolitico ostile, la polarizzazione maghrebini contro subsahariani non è insolita in una realtà in cui ciascun gruppo etnico o nazionale percepisce gli altri come concorrenti nell’accesso alle risorse scarse, siano pubbliche, private o illegali.

Chi viene dal nord Africa non guarda con particolare empatia ai subsahariani, sempre più numerosi negli ultimi anni, ma nemmeno ai residenti autoctoni definiti petit blancs, “piccoli bianchi”, quelli che non sono riusciti a allontanarsi dalle periferie perché collocati nei gradini più bassi della scala sociale. Gli stessi che , nelle urne, premiano forze politiche, come il Rassemblement national di Marine Le Pen, delle quali condividono le posizioni xenofobe. I “ bianchi” accusano i poteri pubblici e la “ politica” di occuparsi solo degli “ arabi” e i “neri”, portatori di “disordine e criminalità Tra i petit blancs vi sono anche vecchie famiglie di pieds-noir, gli ex-coloni francesi in Algeria, ritrovatisi a vivere accanto a quelli che ritengono i responsabili della loro infausta sorte: gli arabi.

Il passato che non passa della memoria coloniale – le lacerazioni provocate dalla vicenda algerina sono ancora aperte, nell’uno e nell’altro campo – finisce per estendere lo stigma dei “bianchi” a tutte le popolazioni originarie del Maghreb, non certo omogenee dal punto di vista della composizione sociale, culturale e per storia, anche quella coloniale, eppure unificate nel rifiuto.

© Riproduzione riservata