Un viaggio tra psicoanalisi e creatività, dal sodalizio Freud-Jung alla figura enigmatica di Roberto Bazlen: disegni, sogni e immagini interiori diventano strumenti di esplorazione dell'inconscio, ma anche specchi delle ambivalenze di un uomo che rifiutò l’individuazione per diventare leggenda silenziosa
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Finzioni, disponibile sulla app di Domani e in edicola.
Roberto Bazlen (Trieste 1902-Milano 1965), noto come Bobi, è stato uno dei più portentosi e immaginifici uomini dell’editoria del Novecento italiano. Nel 1962 fu tra i fondatori di Adelphi insieme a Luciano Foà. Fece scoprire Svevo, dialogò con Montale, introdusse in Italia Freud, Jung, Kafka e Musil. Dal 1944 al 1950 fece moltissimi disegni che rappresentano il diario visivo della sua terapia psicoanalitica con Ernst Bernhard (Berlino 1896-Roma 1965), il primo psicoanalista junghiano in Italia. Personaggi di spicco della cultura italiana gravitarono intorno a Bernhard o furono in analisi con lui; oltre a Bazlen, Federico Fellini, Giacomo Debenedetti, Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Cristina Campo, Amelia Rosselli, Luciano Emmer, Carla Vasio, Vittorio De Seta e Adriano Olivetti. La terapia si basava sulla pratica dell’immaginazione attiva: esprimere con una tecnica diversa da quella abituale le immagini dei sogni come chiave di lettura dell’inconscio. Così Bernhard chiede a Bazlen, letterato, di disegnare.
Dall’iniziale lavoro comune tra Freud e Jung nacque la tecnica della libera associazione per arrivare ai contenuti inconsci dei pazienti. Si trattava sostanzialmente di far loro associare delle parole. Per esempio, in chi ha perso una persona cara per un incidente automobilistico, la parola «strada» può essere inconsciamente collegata a «morte», causando sofferenza. Negli anni di dolorosa solitudine seguiti alla separazione da Freud, Jung cercò di puntellarsi conducendo una auto-analisi, come aveva fatto il maestro. Ma per giungere al proprio inconscio non utilizzò solo i concetti.
I due fondatori erano d’accordo sul fatto che, per capirlo e affrontare le contraddizioni in cui ci conduce, vanno osservati tutti i contenuti non intenzionali e non razionali della psiche: sogni, fantasticherie involontarie e via di seguito. Questi elementi, però, difficilmente si presentano come idee, concetti astratti riassunti da una parola: consistono per la maggior parte in immagini.
Jung si concentrò soprattutto su queste, cercando di trattenerle e poi di disegnarle per non esserne sopraffatto. Erano gli anni della Prima guerra mondiale, fiumi di sangue apparivano nei suoi sogni e in quelli dei pazienti. Proprio dipingendoli, uscì dalla lotta con i mostri interiori relativamente rappacificato e rinforzato. Continuò anche in seguito questa pratica e incoraggiò i pazienti a farlo.
Così il ricorso al dipinto, il più possibile spontaneo, divenne una tecnica abituale fra gli analisti junghiani. Niente di più scontato, quindi, che ritrovare molti disegni – insieme ad alcune liriche – fra il materiale creativo “spontaneo” che Bazlen produsse negli anni in cui si fece analizzare da Ernst Bernhard: il quale fu il fondatore dell’analisi junghiana in Italia, ma anche un suo rappresentante con marcature un po’ esoteriche e misticheggianti, frequenti quando un caposcuola locale non ha più molto di personale da aggiungere.
Mentre i seguaci di Jung in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Germania e in Israele hanno prodotto nuove tendenze poi diffuse in tutto il mondo, il nucleo italiano è stato fra i primi per data di fondazione e per dimensione, ma non ha fatto nascere una sua scuola. Non a caso, Bernhard lasciò pochi scritti.
Un paziente mitizzato
Niente di più difficile, invece, è dire qualcosa di chiaro, di puntuale e – possibilmente, data la qualità del personaggio – di elogiativo a proposito di Bazlen, suo personalissimo e mitizzato paziente. La sua lingua principale non era neppure l’italiano ma, come per Bernhard, il tedesco: eppure, l’Italia gli deve una buona parte della sua rinascita editoriale al termine del fascismo.
Il paese era stato nella serie B dell’Europa irrigidita dai nazionalismi. Nel 1945 fu riammesso nell’Occidente purché restasse in serie B. Eppure, paradossalmente, la sua nuova editoria può essere giudicata la migliore del mondo per qualità e capacità di anticipare. È altrettanto paradossale ma significativo che il principale ispiratore delle più innovative case editrici italiane sia stato questo triestino sfuggente e cosmopolita, cresciuto in ambiente ebraico. Il lavoro mentale con i concetti è relativamente vicino alla coscienza: la razionalità del pensiero e la complessa struttura di ogni lingua sono schemi precostituiti e decodificabili, che svelano aspetti inconsci solo occasionalmente, come appunto nella libera associazione verbale.
Il disegno – e più ancora la formazione di immagini primordiali, quali le figure tracciate nella sabbia – provengono invece in parte maggiore da stadi preverbali della nostra crescita, quindi rivelano emozioni particolarmente profonde di cui abbiamo perso consapevolezza. Gli schizzi del corpo umano di chi non disegna per professione possono involontariamente rivelare la paura del femminile in un uomo, del maschile in una donna, di infinite altre cose nel bambino.
Nel 1975 a Zurigo fu allestita una grande mostra per il centenario della nascita di Jung. In una sala riservata ai disegni come ausiliari del percorso analitico troneggiava un “mostro benevolo”: lo avevo sognato e dipinto qualche anno prima, portandolo al mio analista, che dirigeva l’archivio delle immagini allo Jung Institut. La didascalia diceva che il giovane autore stava probabilmente scoprendo in sé una forza: ma doveva far attenzione, perché difficilmente i mostri sono soltanto benevoli. In questo modo, riassumeva il mio percorso di quegli anni: passato da protagonista dell’analisi a spettatore della mostra, non potevo che dargli ragione.
Per ricavare un senso specifico dai sogni, o dai disegni che ne derivano, è importante disporre non solo di una immagine isolata, ma di una serie che illustri in quale direzione si modificano. E naturalmente è opportuno che il paziente non si celi troppo dietro facciate che è abituato a presentare: un pittore, ad esempio, dovrebbe esprimere l’immagine che ha sognato prescindendo il più possibile dalla sua capacità di estetizzarla o comunque di adeguarla a un canone. Questo è il punto nel caso di Bazlen.
Egli disegna come un bravissimo caricaturista o un grafico consumato, consapevole del cammino percorso dall’occhio dell’osservatore verso l’immagine da lui fornita: ma proprio questo potrebbe offuscare il percorso che invece ha compiuto la figura stessa per spostarsi dalla psiche di Bazlen alla sua matita. I suoi disegni sono stati fatti in privato, ma nascono da una mente fin dall’inizio consapevole di ciò che chiamiamo “il pubblico”. In altre parole, danno l’impressione di esser passati non dall’inconscio, ma da una intenzione cosciente al suo strumento grafico.
Del resto, si tratta quasi sempre di pupazzi: gradevoli, originali, ma che in serie diventano un genere abbastanza fisso, come i soggetti che un caricaturista fornisce al lettore, il quale a sua volta impara a distinguere l’autore già a colpo d’occhio e anche senza firma. Magistrale il cinese riconoscibile dai semplici baffi ottocenteschi: che appartiene a un codice grafico razzista, come gli africani disegnati col volto di scimmia. Nella sostanza, i suoi omini a volte innocui, altre volte inquietanti, difficilmente possono essergli apparsi in sogno come li rappresenta: non a caso, solo su un disegno ha scritto “sogno”, lasciandoci presumere che gli altri – a maggior ragione le sue “cartoline”, che svolgono ognuna un tema – non rappresentino un suo ricordo onirico, ma provengano dalla intenzione di raffigurare qualcosa.
Del resto, un paziente che per anni portasse all’analista sogni di esseri umani senza occhi, gli comunicherebbe un gravissimo indizio di psicosi latente, che può esplodere sotto a una personalità apparentemente ben adattata. Senza arrivare a questa allarmante conclusione, il forte codice grafico di Bazlen ci conferma piuttosto quello che apprendiamo dalla maggior parte delle descrizioni. Era un uomo pieno di entusiasmi ma schivo; di intense affettività e insieme riservato.
Dedicava la vita a “vedere” le persone e le loro creazioni: ma era troppo complesso per fissarle con gli occhi dentro agli occhi, era ardito e sfuggente nello stesso attimo. Come si rappresenta un simile sguardo? La risposta potrebbe suonare: “non è rappresentabile”. Per questo, i suoi volti non possiedono l’organo della vista.
Roberto Bazlen e l’analisi
Malgrado sia stato descritto come quasi fanaticamente dedito alle sedute con Bernhard, Bazlen ci lascia l’opposta impressione di essere un “obiettore all’analisi”. Il percorso terapeutico junghiano non è finalizzato a una meta standard (la guarigione, appartenente al modello medico e freudiano) ma a un dispiegarsi delle caratteristiche personali, chiamato individuazione.
Bazlen, però, è già caratterizzato da qualità inconfondibilmente sue, ed è circondato da personaggi fin troppo originali. È sballottato fra identità tedesca, austriaca, italiana; tra religione luterana, ebraica, cattolica; tra città italiane a loro volta ben diverse e in cui comunque non si radicava (visse soprattutto a Roma in una stanza d’affitto). Si descrisse come «ein Wanderer», un viandante, pur non corrispondendo a questa stereotipizzazione della diaspora.
Lo circondano varietà infinite, eppure mai all’altezza delle sue aspettative profonde. Possiamo immaginare che Bernhard abbia cercato di promuovere in lui l’individuazione (uno dei pochi temi su cui scrisse), forse in modo un po’ prevedibile ed esplicito: A tale “richiesta”, Bazlen si oppone in modo radicale, rifugiandosi in apparenza nell’anonimato e nella omologazione. Una “resistenza all’analisi” – o, più specificamente, all’individuazione – che corrisponde in maniera sorprendente al suo ruolo di gran rinnovatore dell’editoria e della cultura italiana: il quale, però, di suo non pubblicò nulla.
Bazlen non voleva farsi notare e riuscì a non farsi notare. Non voleva esibirsi: e al massimo verrà, lui, strumentalizzato dagli esibizionisti. Andava in analisi a parlare di archetipi, ma i suoi pupazzi sono piuttosto stereotipi al punto da fare da apripista agli emoji.
Da I disegni di Bobi Bazlen, a cura di Anna Foà, Acquario
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