Su un banco nostalgia di Trani c’era un vecchio vinile blues di Bessie Smith. Prenderlo in mano il disco, è come aprire una foglia di tabacco. Si sente ancora l’odore del whisky. Ci sono le macchie del fumo delle sigarette, non solo di chi l’ha consumato su un giradischi, ma anche di chi l’ha suonato e cantato. Smith se n’è andata il 26 settembre del 1937, a soli 43 anni. Ottantotto anni fa.

Questa bancarella è una Spoon River, ed è Bessie Smith a raccontarci la sua vita: «Sono stata la regina del blues. Sono nata nel Tennessee nel 1894, sono morta lungo il Mississippi a bordo di una Packard. Una tragedia? Forse l’ho cercata la morte. Da Chattanooga a New York sono stata la voce dei dimenticati e dei perduti.Un’eco, un fantasma che risuonava nelle strade polverose a riflettere le speranze di chi aveva la pelle di luna bruna. Il whisky e il fumo mi facevano compagnia, mentre le mie canzoni parlavano di cuori spaccati. Ora riposo, sotto una quercia solitaria. Ma voi ascoltate, ancora una volta, la mia voce perché il blues non muore mai».

Dopo questa visione sonora chiamo al telefono Raphael Gualazzi, l’unico artista italiano che può permettersi di “osare” le canzoni di Bessie Smith.

Gualazzi, se dovesse raccontare a un bambino una favola di Bessie Smith, come sarebbe?

Forse quello stesso bambino non vorrebbe ascoltare questa favola. “Smith” era il cognome del padrone che probabilmente aveva comprato/deportato/abusato e/o torturato i predecessori di Bessie. Il suo vero cognome (quello africano) non fu probabilmente mai chiesto ai suoi antenati deportati, o fu considerato di nullo valore, perché non erano nient’altro che proprietà del padrone bianco, Mr. Smith.

Ma tornando al bambino credo che preferirebbe ascoltare la voce e l’infinita personalità musicale di quella dea del blues che è riuscita a trasmettere tutta l’intensità, la verità e il valore della cultura africana-americana al mondo intero, in un’epoca in cui essere una donna afroamericana nata in Tennessee significava lottare per scansare la morte dal momento appena successivo alla nascita. Forse direi: «C’era una volta una dea la cui voce era così potente da liberare l’anima di chiunque dalle sue catene».

Qual è la forza della sua musica e delle sue canzoni?

Oggi siamo invasi da una miriade di vantaggi tecnologici nella creazione artistica. Quando Smith fece ciò che fece, fu la tecnologia a ispirarsi alla forza del suo talento, alle frequenze consistenti e autentiche della sua voce per evolvere. La stessa cosa accadrà poco più di un ventennio dopo, con un giovane italiano nato a Hoboken — un tale Francis Albert Sinatra — non a caso soprannominato “The Voice”.

È passato un secolo e la sua musica continua a vivere in ogni parte del mondo.

Bessie Smith è sempre soulful, potente, autentica, chiara e intellegibile. Non c'è spazio per inutili melismi o moine da languida cantante di charleston. C’è una Careless Love probabilmente strimpellata alla chitarra da un preziosissimo e poverissimo W.C. Handy, l’autore di St. Louis Blues – quello dei “diritti o contanti”. Ovviamente contanti, perché i diritti, davanti a un giudice bianco del Tennessee, non sarebbe mai riuscito a rivendicarli. Canta il blues – che non è solo una musica, ma molto di più – con il piglio di una cantante d’opera. È la prima vera manifestazione di quella che è già stata correttamente definita “Black Classical Music”.

Come è riuscito a fare sue quelle canzoni?

Io non ci sono mai riuscito. Non sono io che faccio la musica, ma è lei che mi si fa. È lei che ci sceglie. Noi siamo solo dei privilegiatissimi testimoni di un’eredità culturale che abbiamo emulato e cercato di rielaborare da cent’anni a questa parte. Ogni volta che ho l’onore di esplorare i testi di questi masterpieces, mi accorgo che il racconto testuale ha l’estrema urgenza di far uscire tutti gli aspetti più scomodi delle verità che riguardavano (e riguardano tuttora) la società e la cultura afroamericana — trascendendo, attraverso l’immenso talento interpretativo di Bessie, gli accompagnamenti musicali ebbri, smaliziati e un po’ ruffiani.

Bessie Smith cosa rappresenta per le donne che fanno musica?

Probabilmente che è più importante cosa vuoi dire di come lo interpreti (tecnicamente).

E qual è la sua lezione per gli uomini che fanno jazz?

Probabilmente che a volte è meglio la più semplice esposizione di un tema, suonata con l’anima, che ogni qualsivoglia cerebrale e vertiginosa improvvisazione, che spesso nutre urgenze egotiche e autoreferenziali – a scapito della celebrazione del vero senso dell’arte.

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