Mercoledì scorso, 27 aprile, dopo trenta puntuali numeri settimanali, Cose da maschi si è presa un mini-sabbatico. Ho ricevuto una notizia importante e inaspettata: quest’estate lascerò il Bryn Mawr College per trasferirmi all’Università di Yale, dove lo scorso autunno (proprio mentre cominciavo a tenere questa rubrica) si era aperta una cattedra di letteratura italiana contemporanea. Un passaggio, come si dice in America, “bittersweet”, che richiedeva un momento di calma.

Il piano era di tornare alla carica oggi con un’allegra cicalata sugli elmi, i cappelli e i copricapi da maschio, magari ispirata dalle visioni del Met Gala consumatosi ieri l’altro. Didier Falzone aveva già realizzato un’illustrazione splendida, e la redazione di Domani era stata avvisata.

La vita però, a volte, affastella le sorprese in un fuoco di fila che alterna rapidamente emozioni anche opposte, poli inconciliabili dell’esperienza. Lunedì 2 maggio, a Roma, è morta Biancamaria Frabotta, la professoressa che alla Sapienza mi ha insegnato il Novecento, l’autrice di un corpus di poesia che ho amato alla follia e di cui qualche anno fa ho scritto con incanto, la maestra con cui ho lavorato alla tesi di laurea e per cui un consesso di allieve e allievi ha raccolto memorie e riflessioni in un libretto giallo uscito a mia cura nell’anno del suo pensionamento.

La scomparsa di Biancamaria Frabotta mi impone di sospendere per un’altra settimana il ragionamento per nulla urgente su elmi e cappelli, e di interrogarmi invece su cosa significa, per un maschio, riconoscersi nel magistero di una maestra. Oltre a essere una fine critica, una poeta che ha attraversato con inconfondibile stile e ostinata altezza il confine tra due secoli e millenni, nonché una professoressa ordinaria di Letteratura contemporanea nell’ateneo in cui quella disciplina è stata fondata, Biancamaria Frabotta è stata una femminista.

Un’originale, militante coscienza di genere animava tutto quello che faceva, dalla più pratica delle decisioni amministrative alla più aerea delle meditazioni in versi. Il suo era un femminismo storico, e tuttavia viandante: in continuo aggiornamento. Una risorsa per chi, oltre a leggere i suoi scritti, aveva il privilegio di poterle chiedere consiglio, di farsi indovinare un oroscopo politico e personale tra una lettura di versi e una chiacchiera su Amelia Rosselli o Giacomo Debenedetti.

E già all’indomani della sua dipartita vorrei subito interrogarla, la mia professoressa femminista, sugli orrori di giornata, che mi lasciano sgomento: qui negli Stati Uniti, dove vivo, è trapelata un’opinione della Corte Suprema che mostra come i giudici, al momento in maggioranza di destra, stiano quasi certamente per dichiarare incostituzionale il diritto all’aborto. Un’assurdità che coglie di sorpresa anche il più radicale tra i pessimismi della ragione. 

Tali inquietanti notizie mostrano come la lotta femminista non sia mai obsoleta, come di maestre ci sia sempre bisogno. Fa scintillare immediatamente la mancanza che chiunque creda nel progresso e nell’emancipazione deve sentire quando ci lascia un’intellettuale come Biancamaria Frabotta.

Per salutare Biancamaria Frabotta ho scritto dunque un articolo su una cosa forse poco da maschi, ma che auspico per tutti i maschi, specialmente quelli più giovani di me: il magistero femminile e femminista. Trovate qui, sul sito di Domani, il mio tentativo di spiegare cosa sia una maestra – e cosa sia stata, cosa rimarrà sempre, la lezione della mia maestra, Biancamaria Frabotta.

Quando uscirà sul giornale di carta, questo sabato, i funerali si saranno già celebrati, ma non sarà ancora pubblicato il suo ultimo libro, Nessuno veda nessuno, sulle cui bozze stava lavorando quando l’ho sentita l’ultima volta. Mi diceva «Forse contiene il mio testamento, non so». Qualcosa doveva sapere quella druda – che certo, di me, sapeva sempre cose di cui mi sarei accorto invariabilmente molto più tardi di lei.

Infatti, pare che un’epigrafe di quel suo libro finale, che non vedo l’ora di leggere intero e di cui spero molti suoi allievi e molte sue allieve scriveranno, sarà un passaggio da Agostino: «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dove erano ma sono ovunque noi siamo».

Mi piace molto accompagnare il commosso ricordo vitale di chi ha insegnato, a me e a molti altri giovani uomini, il femminismo, con un controcanto su cosa sia un uomo femminista: il primo di una piccola serie di contributi che Lorenzo Gasparrini, molto generosamente, offrirà ai lettori di Cose da maschi in queste settimane.

Chi si interessa di prospettive femministe sull’identità di genere maschile conosce già Gasparrini, autore di libri chiari e d’elegante intelligenza su temi complessi o troppo spesso banalizzati nella vulgata giornalistico-editoriale. È l’autore di Perché il femminismo serve anche agli uomini ad esempio e, qualche anno fa, diede alle stampe Diventare uomini, che prima di cominciare a scrivere queste lettere ho letto in una nuova edizione uscita durante la pandemia, trovandolo brillante e ineludibile.

Tra gli antisessisti italiani, Lorenzo è stato un’ispirazione per me: nella sua lucidità di filosofo, nella franchezza della sua posizione, nella cultura storica che è capace di intessere in racconti senza fronzoli c’è come un antidoto al chiacchiericcio derivativo e semplificante che tende ad annuvolare i discorsi mainstream sul genere in Italia.

Nel suo pezzo, che trovate qui su Domani, parte da alcune questioni fondamentali: coscienza, alibi e aspirazioni dei maschi al cospetto delle possibilità di un riflettere sul (e di un riflettersi nel) femminismo. È come se preparasse il terreno, aggiornandoci in poche battute sui problemi di cui si è occupato ampiamente nei libri, negli articoli e negli interventi dal vivo di questi anni di attivismo divulgativo. Gli sono molto grato, e non vedo l’ora di leggere i suoi imminenti ulteriori contributi per questa rubrica ormai felicemente polifonica.

La prossima settimana si torna a più consueti lavori, oggetti, esplorazioni trans-storiche. Si parlerà, come ho annunciato, di elmi, e anche nuovamente di scudi (stavolta nella tragedia greca). Ma stasera lasciate che mi congedi con alcuni versi di Biancamaria Frabotta, dalla sua poesia Plasma, tra le ultime della raccolta di “tutte le poesie” con cui cinque anni fa girò l’Italia impartendo alcune tra la sue più emozionanti lezioni.

È una poesia legata alla sua alleanza amorosa con un marito scienziato, l’incantevole Brunello Tirozzi dalle leggendarie cravatte, che a Roma ogni tanto si può andare a sentir suonare il jazz o leggere strofette in rima – vi consiglio di cercare i suoi libri, e in particolare uno che ha scritto proprio a quattro mani con la mia maestra, Risatelle, da cui ho imparato come l’amore coniugale possa essere leggero e davvero eterno, specie se plasmato da due femministi.

[…] Quale migliore testimone

ai fasti della luce diurna

quando crolla l’attrito

che tiene uniti i gas

nell’immensa famiglia stellare?

L’agitazione termica scioglie

i legami e tanti gli urti subiti

che l’atomo s’apre a corolla

e se ne vanno in giro

nel cosmo i suoi pistilli

dove ogni sì ci plasma

e ogni no, in eguale misura.

Oh notte remissiva

fraterna spettatrice.

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