Una delle domande che mi viene rivolta più spesso è: che vuol dire che un uomo è femminista? Quello di cui mi accorgo, ogni volta che rispondo in tanti contesti diversi – scuole, aziende, centri sociali, sindacati, per iscritto in una slide o parlando in un dibattito o question time aperto – è che il problema per comprendere questa cosa tanto strana non sta nel concetto di “femminista”, ma in quello di “uomo”.

Che cos’è il femminismo

Per sapere cosa sono i femminismi serve solo la volontà, le fonti non mancano. Anche se in Italia questi sono ancora argomenti che troviamo poco nei libri di scuola, scarsamente trattati all’università, malamente discussi nei media generalisti, non ci vuole poi molto nel 2022 a togliersi dalla testa stereotipi e luoghi comuni sui femminismi.

Instagram, tanto per dirne una, è pieno di attivistə molto più preparatə e capaci di chi sta attualmente dietro una cattedra di qualsiasi livello, di chi scrive abitualmente libri o articoli, di chi viene chiamatə a dare la sua opinione pubblicamente. Ciò non deve stupire: attualmente chi comunica tramite social, sapendoli usare, con realtà di paesi diversi, e sa documentarsi in più lingue, è sicuramente più informatə di moltə docenti di professione; moltə di questi non si sono accorti che la preparazione che hanno ricevuto, sui femminismi e sugli argomenti di genere, o è nulla o è molto limitata dal periodo e dal contesto alla quale appartiene.

L’ostacolo più duro da superare è proprio questo: riconoscere che la maggior parte delle persone non solo sa molto poco di femminismi, questioni di genere, lotte politiche Lgbtqi+, patriarcato vigente, ma quel poco è sostanzialmente sbagliato e distorto da tradizioni e “vulgate” molto scorrette. Ammesso questo, ci si può informare sensatamente da testi e materiali ormai tranquillamente accessibili anche in italiano.

Che cos’è un uomo?

Molto più difficile, soprattutto per il pubblico maschile, è mettere in questione l’altro termine dell’espressione “uomo femminista”. Gli uomini – intesi come gruppo sociale formato dagli etero bianchi di sesso maschile – non sono abituati a pensarsi come genere, e hanno grande difficoltà a ragionare insieme di questo problema: cos’è un uomo?

La maggior parte di loro non si chiede mai, neanche una volta nella vita, se nella definizione di “uomo” comunemente diffusa e tramandata dalla società nella quale nascono ci sia qualcosa che non va o che manca. Questa è esattamente la domanda che ciascun femminismo fa nascere negli uomini che osservano o conoscono o studiano donne che, oppresse e decise a cambiare la definizione sociale della propria vita, cominciano un lavoro di autodeterminazione. Questo significa sottrarsi al potere definitorio della società, dell’economia e della cultura, e decidere i poteri e le forze in gioco nella propria vita; trovando spazi e poi pratiche per discutere e decidere insieme del problema che si ha in comune, quello di essere un genere determinato da cose che loro non decidono, non comandano, non vogliono.

Gli uomini, semplicemente, questo non lo fanno, principalmente perché nella normale educazione impartita a chi è maschio viene insegnato a non averne bisogno. Essere femminista, per un uomo, non vuol dire certo “fare quello che dice il femminismo”: agli uomini i femminismi, sostanzialmente, non dicono niente, non nascono certo per loro. Però parlano di quello stesso sistema di potere del quale fanno parte anche loro, e dal quale ricevono privilegi a un prezzo altissimo, che a nessun uomo viene chiesto esplicitamente di accettare.

Coscienza maschile

I dati statistici sulla maschilità maschile parlano chiaro. Gli uomini vivono meno delle donne e muoiono di morti più violente; si interessano meno alla cura del proprio corpo, si controllano meno durante la loro vita, soprattutto la salute e il funzionamento dei loro organi genitali; accettano i lavori più gravosi e disumani e sono quelli con le responsabilità, individuali e sociali, maggiori; commettono la maggior parte dei reati.

La scarsissima riflessione che il genere maschile dedica a queste misere condizioni di vita si spiega con quel racconto patriarcale di sé che va avanti, con molte trasformazioni, da secoli. Le false spiegazioni e i falsi bersagli sociali del genere maschile sono tutti creati da una cultura patriarcale che serve a mantenere il potere sociale in mano a pochi uomini, mentre la maggior parte di loro vive illusa di contare qualcosa, e gli altri generi sono più in basso nella gerarchia.

Da secoli l’aggressività verso ogni diversità, la sottovalutazione di ogni tipicità definita femminile, la repulsione verso i gesti di cura verso altri uomini, la diffidenza sociale verso chi non manifesta apertamente e tangibilmente l’accordo a un’idea di maschilità tradizionale, sono considerate caratteristiche naturali maschili, a dispetto di qualsiasi evidenza naturale e scientifica. Il mito del testosterone – un esempio tra i tanti – è stato sconfessato da innumerevoli prove, ma ancora la sua capacità, per la pubblica opinione, di giustificare atteggiamenti, molestie, persino reati, è intatta.

La coda di paglia

Quale idea sociale di maschile sorregge tutto questo apparato ipocrita di narrazioni sugli uomini? Ancora oggi moltissimi pensano alle sacrosante rivendicazioni di chi non nasce con i genitali maschili come un attacco al loro genere, come il tentativo di togliere loro dei diritti di base.

Ancora oggi molti uomini si considerano un genere solo quando si sentono messi in questione nelle loro abitudini discriminanti, nei loro linguaggi abusanti, nelle loro gerarchie opprimenti; e la visione distorta che hanno dei femminismi non gli permette di capire che queste critiche non sono dirette alla loro natura maschile (che senso avrebbero?) ma all’idea sociale di “uomo” che non sta più riuscendo a soddisfare neanche gli uomini stessi.

Non si tratta della periodica “crisi del maschile”, l’ipocrita scusa usata da secoli per disinteressarsi alle rivendicazioni sociali come ai problemi individuali altrui. L’unica spiegazione socialmente diffusa per un uomo che “non ce la fa” – nel sesso come negli affari – è che non è stato abbastanza uomo; critiche di altro tipo non sono ammesse.

Tutto quello che farebbe vacillare, o perlomeno incrinare, il sistema di potere patriarcale è immediatamente bollato come fazioso, parziale, estremista, addirittura violento. La richiesta sociale di un linguaggio più rispettoso diventa “non si può più dire niente”; la richiesta sociale di una cultura del consenso diventa “come fai un gesto di cavalleria sei preso per molestatore”; la richiesta sociale di condividere il carico mentale dei lavori di cura diventa “queste cose non sono da uomini, sono contro la mia natura”.

A chi serve il patriarcato?

I femminismi da secoli raccontano e dimostrano che la visione stereotipata dei generi è una invenzione maschile, che serve solo a pochi uomini per detenere un grande potere. Quel potere genera una cultura – la cara vecchia lezione foucaultiana – e da quella cultura discende una visione maschile dei fenomeni che è facilmente assimilata da persone di qualsiasi genere, a cui fa comodo quella visione.

I femminismi insegnano da altrettanti secoli la differenza tra gestire i conflitti e farsi la guerra, una differenza della quale abbiamo sempre più disperatamente bisogno. Lo stereotipo falso e ipocrita della femminista sbraitante e sguaiata è la prova di quanta paura ancora abbiamo di affrontare una donna che ha ragioni logiche ed esperienze politiche inattaccabili, dalla quale non accettiamo una critica che ci costringerebbe ad ammettere quanto siamo soggiogati dal patriarcato.

Le storie raccontate dai femminismi dovrebbero almeno funzionare come pietre d’inciampo per nuove visioni possibili, e dovremmo parlarne senza rifugiarci in un puerile cameratismo. Lo sanno sempre di più tanti uomini che hanno smesso di farsi domande che gli impediscono di agire, e hanno cominciato a trovare risposte facendo proprie quelle pratiche che da sempre gli era stato detto di evitare.

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