«Pratico una fede che è stata da tempo abbandonata». Bob Dylan, il più grande cantautore di tutti i tempi, il 24 maggio compie 80 anni. Non si può dire che sia stato incompreso: ha ricevuto premi di ogni tipo (fra cui un Nobel, un Pulitzer e la Medaglia della Libertà), su di lui sono stati girati una decina di film, di cui ben due diretti da Martin Scorsese (nel 2005 e nel 2019) e un capolavoro come I’m Not There di Todd Haynes (2007), sono stati scritti centinaia di libri: solo in inglese si contano più di venti biografie e un’altra settantina di volumi, cui bisognerebbe aggiungere quelli pubblicati in altre lingue di cui è difficile tenere il conto (di autori italiani, ne spunta quasi uno all’anno). «Dylan appartiene a quella maestosa corrente classica che dalle sorgenti greche e latine ha continuato a scorrere fino ai nostri giorni», ha scritto Richard Thomas, docente di lettere classiche ad Harvard (Perché Bob Dylan, Edt, 2021): «Da decenni la sua opera arricchisce la nostra esistenza, interrogandosi su che cosa veramente significhi essere umani. Ecco qual è l’importanza di Dylan».

Cosa significa essere umani

Da giovane, ero appassionato di canzone d’autore, ascoltavo Dylan ma pensavo che fosse un po’ sopravvalutato (e De André? E Cohen? E Léo Ferré?). Poi mi trovai a migliorare il mio inglese, da autodidatta, e lo feci studiando a fondo le sue canzoni. Conoscerlo bene, al di là delle pur molte cose generalmente note, e capirne il linguaggio, fu una rivelazione potente. Da allora non ho mai smesso di ascoltarlo, a differenza di altri, e di “scoprirlo” (la sua opera è davvero sterminata, colma di inediti e rarità). Oggi, non penso che tanti elogi e tributi siano esagerati. Penso che siano giusti. Semmai, provo rammarico per certo provincialismo della cultura italiana che, con alcune eccezioni (fra cui spicca Francesco De Gregori), ha spesso un’idea stereotipata del personaggio, non diversa da quella che avevo io da giovane. Molti in Italia lo considerano poco più di un bravissimo cantante di protesta, benché quello politico non sia il filone prevalente nella sua poetica. Dylan in realtà ha scritto soprattutto canzoni d’amore, o sul tempo che passa, ma più in generale canzoni su «cosa significa essere umani», come ha ben colto Richard Thomas.
Per dire, Dylan ha donato all’umanità alcune delle più belle canzoni religiose mai scritte: almeno due (Every Grain of Sand, del 1981, e l’ancora più sorprendente Lay Down Your Weary Tune, composta a soli 22 anni) sul piano lirico sono forse irraggiungibili, a memoria d’uomo, a detta di teologi e studiosi di questo genere. Peraltro non è necessario essere un credente, per apprezzare e godere delle canzoni «evangeliche» di Dylan, così come non è necessario esserlo per godere della Passione secondo Giovanni di Bach (eh sì, è stato fatto anche questo paragone, da Penn Jillette). Così come non è necessario essere un militante pacifista degli anni Sessanta per esaltarsi o commuoversi ascoltando Hard Rain o Masters of War.

La canzone come opera d’arte

Dylan è senza dubbio eccezionale per la sua creatività: la sostanza. Ha avuto una straordinaria «esplosione» all’inizio della sua carriera, dal 1962 al 1966 (cioè fra i 21 e i 25 anni), che ha cambiato per sempre la storia della canzone mondiale: ebbe un’influenza decisiva anche nella trasformazione dei Beatles, e c’è chi considera Dylan addirittura l’inventore del rock (con Like a Rolling Stone, 1965), come evoluzione dal rock’n’roll. Questo è già un fatto unico in sé, che lo rende accostabile al ruolo di dirompente innovazione che ha svolto Rimbaud nella poesia. Solo che, a differenza di Rimbaud, Bob Dylan non smette, non smette mai. Negli anni Settanta, Ottanta, Novanta e Duemila Dylan scrive ancora più o meno un centinaio di capolavori, molti dei quali inarrivabili alla stragrande maggioranza degli artisti in circolazione. Cambia spesso genere, modo di cantare, linguaggio, filosofia, a volte scioccando i suoi fan e l’opinione pubblica (ed è il primo a fare questo fino in fondo, già nel 1965, nel mondo della canzone). In aggiunta reinterpreta continuamente tutte le sue canzoni, e quelle di altri, in un estenuante tour «everlasting» che, inaugurato alla fine degli anni Ottanta, si è fermato solo adesso con il Covid. Certo, nel tempo Dylan ha scritto e cantato anche diverse cose brutte, o mediocri, alcune imbarazzanti. Il personaggio è fatto così. Anche questo vuol dire «essere umani».

Il secondo fatto eccezionale è la forma, nell’arte di Dylan. I suoi testi sono stati accostati a poeti del calibro di Thomas Eliot o Walt Whitman. Dylan però non lavora con la parola scritta, ma cantata. Non è un poeta, ma un cantautore (si è cimentato anche con prose e versi stampati, ma non sono indimenticabili). La potenza poetica di Dylan è interamente legata alle sue canzoni: alla musica e all’interpretazione, oltre che ai testi ovviamente. Peraltro ha spesso un modo di cantare dissonante, a volte deliberatamente stonato, che disturba chi cerca le facili melodie della canzone commerciale ed è poco abituato non solo al rock, ma alla varietà del blues e al jazz: è un artista difficile, arrivare ad amarlo costa fatica e un certo grado di «educazione sentimentale», anche musicale. Come se la canzone fosse un’arte a tutti gli effetti, e autonoma, da considerare con la stessa attenzione critica che riserviamo al cinema, o alla pittura, o al teatro. Per questo, oltre che per certi contenuti, Dylan sarebbe piuttosto da paragonare a Shakespeare, la cui letteratura non si imprime nella pagina scritta, ma prende forma nella rappresentazione teatrale. Anche quest’accostamento, ovviamente, è già stato fatto, fra gli altri da lui stesso, nella lettera di accettazione del Nobel. Un premio che si spiega, in effetti, proprio così: Dylan è il più grande e coerente esponente della canzone come forma di letteratura (allo stesso modo in cui Shakespeare lo è per il teatro). Il Nobel certifica questo. È un premio alla canzone come «opera d’arte», per il tramite di Bob Dylan.

Cosa resta dei cantautori?

Messa in questi termini, si impone però una domanda. Non è che la canzone, come opera d’arte, ha fatto il suo tempo? Perché non vengono più fuori personaggi come Bob Dylan? O come Guccini, De Gregori, De André, Paolo Conte, Battiato? O come Jacques Brel e Georges Brassens? Dylan in fondo, oltre al genio, ha avuto la fortuna di nascere nel tempo giusto. Quello in cui la canzone stava diventando il veicolo di una nuova cultura giovanile e di massa, e si avviava a essere considerata come vera e propria arte. Quest’epoca era già iniziata in Francia, subito dopo la guerra, una quindicina d’anni prima l’arrivo di Bob Dylan a New York. Lì, al Greenwich Village, si respirava nell’aria. Dylan ne è stato il massimo esponente e ha anche saputo imprimere un’accelerazione alla storia: ha saputo favorire e diffondere lo spirito dei tempi. Ma se il rock non l’avesse inventato lui, ci avrebbe pensato qualcun altro. Stessa cosa per la canzone di protesta. O per quella più poetica e visionaria (che c’era già in Francia).

L’industria discografica capiva quello che stava succedendo. I discografici più in gamba potevano scommettere su artisti ancora acerbi, che magari all’inizio non vendevano granché, perché capivano che lì c’era un potenziale, da coltivare, perché magari un giorno quel ragazzino sbarbato avrebbe potuto interpretare lo spirito dei tempi. Così accadde per il primo disco di Robert Zimmermann (Bob Dylan, 1962), prodotto dal grande John Hammond che fece «una follia», come dissero, un azzardo. E perse: il disco fu un fiasco. Dylan però sfondò al secondo tentativo, The Freewheeling (con Blowin’ in the wind) e da allora non si è fermato più. In Italia qualche anno dopo, con la gran parte dei nostri cantautori, accadde qualcosa di simile: i primi dischi di Guccini, De Gregori, Vecchioni, Fossati, Paolo Conte, Lucio Dalla e Franco Battiato furono commercialmente dei flop. Alcuni di loro, come Fossati, Conte, Dalla, o Battiato, si destreggiarono per molti anni, maturando e migliorando, prima di trovare finalmente uno straordinario successo. Oggi nessuno avrebbe la voglia e il tempo di investire su di loro.

La canzone è una forma d’arte che, a differenza del cinema, o del teatro, o di un libro, si presta per sua natura a un certo svilimento commerciale. Viene trasmessa in radio, fa da accompagnamento, non richiede necessariamente un ascolto attento. La sua ascesa si lega a una circostanza storica eccezionale, in Occidente: l’arrivo alla ribalta di un paio di generazioni, figlie del boom post-bellico e del miracolo, e ultime prima del declino demografico, che godevano di un livello di benessere materiale mai visto prima, avevano buona cultura, non furono mandate in guerra e reclamavano diritti fino ad allora inediti: civili, sociali e personali (la libertà sessuale e affettiva). Questo grande movimento di emancipazione scelse di identificarsi e di riconoscersi nella canzone, quale veicolo e collante culturale. Anche il supporto tecnico a quel tempo aiutava: l’LP conferiva importanza, se non altro perché richiedeva una certa cura. A volte anche le copertine erano opere d’arte (Andrea Pazienza ad esempio ne disegnò diverse). Battiato nei suoi primi dischi progressive trasformava le copertine in manifesti di cultura alternativa, pubblicizzando ad esempio i Centri di studi magnetici (Pollution, 1973). Oggi con il supporto elettronico tutto questo si è perso. Il disco come prodotto che unisce in sé musica, testi, pittura o fotografia, sorta di libro colorato con dentro la musica, non esiste più. Se non negli scaffali dei collezionisti: di nicchia, non più di massa.

Per questi motivi i discografici non cercano più l’artista, cioè una persona che abbia qualcosa da dire in modo innovativo, su cui investire a prescindere dalle acerbità iniziali. Ma un prodotto commerciale, magari bello e finito. E che quindi, per definizione, non rappresenta nessuna rottura. Finendo, peraltro, per confermare l’idea che la canzone non sia altro che un prodotto commerciale. Altre arti, come il cinema, sopravvivono meglio. Altre nascono (si pensi alla street art). Ma la canzone d’autore sembra al tramonto: beninteso, esiste ancora (ed è sempre esistita), ma non ha neanche lontanamente l’importanza di allora. Muore con lei una sorta di poesia di strada e popolare, cantata, capace di mescolarsi con tutti i generi musicali, di contaminarsi con il cinema, la danza e la pittura e di attraversare la politica e il costume, e che ha avuto una presa straordinaria sull’immaginario di intere generazioni. Per ragioni che sono insieme sociali, culturali e tecnologiche. È per questo che oggi celebriamo Bob Dylan, come celebriamo i nostri cantautori. Esagerando: come si celebrano i filosofi della Grecia antica o i pittori del Rinascimento. Come i simboli di una stagione culturale cui dobbiamo molto, ma che vediamo chiudersi alle nostre spalle.

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