Voglio essere sottile. Ora, adesso, ho aspettato abbastanza, mi dico, mentre centellino a punte di cucchiaino compostabile la granita al caffè che oggi sostituirà il mio pranzo. Oggi e per tutta la vacanza, oggi e per tutta l’estate, mi riprometto, oggi, domani e per il resto della mia vita, limitare i dannai, spezzare il cerchio della sciagura che mi ha fatto suo. Il guru della longevità nell’intervista in cui mi sono imbattuto ieri raccontava che nei periodi in cui rischia di prendere peso – vive tra gli Stati Uniti e l’Italia, ed è qua nel paese che deve correre ai ripari – sostituisce il pranzo con un americano zuccherato. Un pasto in meno, chiariva, la cosa più facile da fare, si scende sicuro. Inoltre raccomandava comunque di sedersi a tavola, prendere parte al rito sociale: gli altri mangiano voi bevete il caffè.

Sia fatta la tua volontà, genio della autoconsunzione: brucio il mio appetito sulla puja dei tuoi precetti luminosi, in grado di rischiarare la via verso la forma ambita. Unica, sola: l’unica forma che non mi fa vergognare della materia che abito, dello spazio che occupo. Da più di un mese ho cominciato a contare le calorie che ingerisco, misuro col bilancino elettronico, quindi moltiplico, tabelle alla mano. Urlo in faccia al mio ragazzo se si ostina a usare l’olio per condire o saltare in padella – mettitelo nel tuo di piatto, da domani ognuno cucina per sé.

Il senso di contaminazione e quindi fallimento per ogni morso di focaccia, forchettata di spaghetti. Viviamo nell’epoca della body positivity, della sacrosanta liberazione dei corpi, della revisione del canone estetico-somatico: d’accordo, andiamo bene come siamo, d’accordo, d’accordo, andiamo, andate: voi, voi andate bene come siete, grandi, piccoli, giovani, anziani, floridi, pienotti, gioiosamente imbolsiti, tutti perfetti, esercito di meravigliose creature gigantesche, fiere cumulatrici di calorie inutilizzate, ma io, io voglio essere sottile, io sogno di meritare il titolo di fuscello, silfide, la fascia di Piccolo Corpo.

Settantaquattro chili e mezzo prima, ora sessantanove ma non è abbastanza: sessantacinque, l’obiettivo, e poi più giù: sessantaquattro, sessantatré, il peso che sfoggiavo quando avevo venticinque anni e potevo vantare tra gli alleati il metabolismo frenetico e l’iperattività, praticavo moltissimo yoga, e del tipo più energeticamente dispendioso, i nazisti dell’Ashtanga, lo yoga di Madonna, salti, contorsioni, acrobazie in nome di Shiva e Patanjali. Lo praticavo e lo insegnavo in palestra, due, tre lezioni al giorno, anche una in fila all’altra. Sessantaquattro chili, il proposito, e una volta raggiunti, magari anche qualcosa meno.

Sessanta chili per un metro e ottanta di altezza. Troppo poco, sottopeso, già sento i commenti, amici, parenti, lettori – se permettete qua decido io. Ridimensionare questo punto-vita e questi fianchi da sudamericana, danzatrice del ventre – la distribuzione dell’adipe tipicamente da donna – assottigliare l’ingombro, prendere sempre meno spazio. Giunco, fatemi tornare a essere un giunco. Il fremito di gioia purissima quando il mio ragazzo l’altro giorno ha poggiato le dita sulle mie creste iliache e ha detto: si iniziano a vedere le ossa.

Tornare un giunco

Salgo sul vetro nero della bilancia digitale ordinata apposta il mese scorso su Amazon per monitorare le oscillazioni, commisurare gli sforzi, ci salgo tre, quattro volte al giorno, e di più: una volta all’ora, nel tentativo di comprendere come varia il peso nelle varie ore, prima e dopo i pasti, prima e dopo l’evacuazione, l’attività fisica, una copiosa sudata. Mani giunte, respiro sospeso e aspetto il responso, vaticinio, la sentenza esibita dalle cifre blu di metilene: salvo, finito, vivo o sprofondato.

Tutti i corpi sono validi, giusto, ma il mio deve essere sottile, leggero, filiforme, corpo d’aria, svincolato dalla gravità. Corpo flessuoso ed elastico, duttile e cangiante, che si piega, si intreccia, si tende e si contrae su sé stesso, diventa un unico piccolo punto del mondo, minuto e compatto. Non è una scelta, dico, vado ripetendo: ognuno deve rispettare l’immagine intima che cova di sé, ognuno deve provare a diventare sé stesso, o sbaglio, correggetemi se mi sbaglio. Il coro dei giusti e degli esperti risponde: ma sono i condizionamenti esterni che blindano con questi modelli, la società ci induce a odiarci se ci allontaniamo da essi, siamo assuefatti: una delle centinaia, migliaia di teste del mostro che ha nome Stigma. E ancora: forse hai un problema, perché non valuti un percorso di psicoterapia. Infine: certi sogni sono sbagliati, malsani. Certi sogni vanno estirpati. Te lo dico io cosa devi sognare.

Al che rispondo, sempre tra me e me, dato che la conversazione è prettamente interiore, autentico turbine soliloquiale: e anche se fosse? Senza conflitto non ci sono storie, senza conflitto non si crea niente, si rimane fermi.

E io voglio spostarmi e creare, creare, soprattutto plasmare la mia figura, il mio avatar, il correlato visibile della mia immagine interna. Identità come fantoccio, delizioso burattino. Dentro io mi sento magrissimo, allampanato, evanescente, spiritello fermo nel tempo.

Mai uomo, mai adulto, io resto ancorato al formato bambino. Stadio precedente alla crescita, essere non ancora sessuato. Ed è qui che io – solitamente associato, per opere narrative e trascorsi, prese di posizione e titoli di interviste, agli sforzi a favore di un tempo nuovo, all’emancipazione dai pregiudizi, alla nuova sensibilità in fatto di questioni identitarie – è qui che io, proprio io mi sorprendo a pensare: se divento così mi butto di sotto, così grosso e la faccio finita.

Iperbole, ovvio, lo dico tanto per dire, amore di enfasi, sguaiato lo sono per natura e contesto di nascita, figlio di operai, gente che non ha finito neanche le medie.

Ribadiamo che tutti i corpi sono giusti così come sono. Tutti tranne il mio. Per il quale esigo una trasformazione, seguendo il modello mai soppiantato delle streghette degli anime con cui sono cresciuto.

Così, davanti allo specchio sollevo la maglietta e raffronto la circonferenza del bacino con quella delle spalle, il disgusto per la vaga forma a pera della silhouette, schiaccio gli eccessi di carne, tendo la pelle dicendo: ecco, la direzione è questa. Svuotare, dimezzare.

Mi alzo sulle punte allo scopo di valutare un miglioramento prospettico, poi di profilo risucchio l’addome, il piccolo deposito di adipe sotto l’ombelico, quanto ci vorrà affinché si cancelli?

Sogno un morso che me lo porti via, un dio buono che mi mangi la pancia. A figura intera mi scatto una foto, la invio ai miei amici e scrivo: se tutto il corpo fosse come le caviglie. Stesso diametro.

Nonostante odi il mondo del fitness e i suoi frequentatori, mi sono iscritto in palestra: corro tutte le mattine sul tapis roulant per la prima volta in vita mia sentendo il cuore che potrebbe scoppiare, mani sulle placche del contatore cardiaco: frequenza 200, rischio aneurisma ma puoi fare di meglio.

Mi dedico a esercizi mirati costringendo gli arti a patire lo strapotere della gravità attraverso pesi e strumenti di recente invenzione dal nome ingiustamente benevolo e ludico – i soldi guadagnati coi diritti del libro io li investo in un personal trainer di nome Stefano, a cui dico senza dire: salvami dalla fossa della proliferazione della massa grassa, dalla ritenzione idrica, dai fast food in cui trascino e vengo trascinato, salvami tu, ultima spiaggia.

Giornate sul divano

La pandemia ha acutizzato una parabola già evidente almeno da un paio d’anni: da inizio 2020 quanti i giorni iniziati e finiti prolassato sul divano, a mangiare per avere le energie necessarie per alzarsi, restare perfettamente immobili e poi tornare a letto.

È che io sono un mercuriale: nato alla metà del mese di giugno, sotto il segno Gemelli, crediate o meno all’antica tradizione sapienziale volgarmente detta “astrologia”, sconfinato coacervo di archetipi e simboli, Mercurio è il mio protettore, il dio dell’adolescenza, del movimento costante, il folletto dello zodiaco. Mercurio il pianeta più piccolo del sistema solare. Gianmarco Tamberi, anche lui Gemelli, salta iperflesso, meravigliosamente inarcato e vince le Olimpiadi, vince e io scrivo ai miei amici su WhatsApp: ecco così, questo è il corpo che voglio. Che voglio e non ho mai avuto, altra, diversa fisionomia la mia, normale, anzi tozza per i miei parametri. Ieri, allo specchio, al mio ragazzo: ho il fisico di un uomo degli anni Sessanta, Marcello Mastroianni, mio nonno da giovane.

Non si tratta affatto di semplice, comune fastidio, odio del grasso: io non vorrei neppure essere muscoloso, per me grassi e bodybuilder stanno nella stessa categoria, ripeto ogni volta che ne ho l’occasione, quella a cui non appartengo.

Ad esempio tra gli omosessuali che ho attorno e vedo sfilare sui social va di moda l’ipertrofia procurata dai grossi carichi: si ingrossano col crossfit, si rinchiudono ore e ore in questi capannoni zuppi di sudore, sognando di diventare tori, mufloni, epigoni di Thor, così da guadagnare punti sulle app di dating, dato che l’immaginario, checché se ne dica, è fermo agli anni Settanta, unito alla cultura visuale dello stupro veicolata dal porno online. Mercurio, Peter Pan, o più che altro Trilli, Campanellino: ci sono molti modi di autodeterminarsi e io voglio essere efebico, ma ho i geni sbagliati.

Gli antenati mori della Sicilia – famiglia paterna – mi hanno lasciato in dono cosce e culo da Carnevale di Rio. Dunque l’unica è l’accanimento senza eccezioni o zone franche, il rigore di platino che ostacoli lo strapotere degli appetiti, in particolare la voglia di sprofondare la faccia in trecento grammi di pasta alla volta, inondati di olio, salse e formaggio vegano (quindi sempre olio, grasso vegetale rappreso).

Esibire uno sfondo ideale

Il corpo degli altri non vi riguarda, mai giudicare, si dice, ho detto, mi sento dire: e qui si trova anche la mia colpa, la mia contraddizione. Perché nel momento in cui dichiaro i desideri e sogni sul fisico, mio stesso fisico, non sto forse esibendo uno sfondo ideale? E di più: una prescrizione, un modo in cui le cose dovrebbero stare.

No, mi rassicuro, vi rassicuro: questo vale per me e me solo. Sono io che punto, devo puntare ai sessantacinque chili e invece sto ancora ai sessantanove, io che ritrovo il mio riflesso allo specchio, i piccoli rigonfiamenti altezza bacino, li afferro tra le dita e li stringo, ancora più forte: questo sarebbe da eliminare, sussurro fomentato. Tagliare, aspirare, una gran bocca meccanica che risucchi tutto.

Basta carboidrati, annuncio a chi mi sta attorno, verdure, tantissime verdure, la salvezza ci si staglia di fronte come una cascata di vegetali volanti. Trenta grammi precisi di fusilli dispersi in una marmitta di broccoli, oppure zucchine, oppure spinaci surgelati rianimati in acqua bollente e conditi con solo limone, affinché i vestiti smettano di fasciarmi e tirare, affinché cessi la sensazione di detonazione incipiente dei pantaloni riempiti troppo – sì, pretendo di indossare ancora la S, di entrare nelle stesse cose del mio ragazzo che ha quasi dieci anni meno di me. Prima di partire per le vacanze il tracollo definitivo nel camerino sotterraneo in Vittorio Emanuele, infilando e sfilando i costumi candidati per il supplizio spiaggistico: accomiatata la S, la M non scivola bene dunque esondato, pronto a sfondare di pugni lo specchio, cedo all’ignominia: prendo la L, l’unica che non costringe l’orrido accumulo della parte centrale del corpo. Sono i glutei il problema, confermo: loro che tolgono spazio. Il mio fidanzato che a più riprese negli ultimi tempi commenta: dovresti imparare a twerkare, oppure: gli abiti di Kim Kardashian ti starebbero bene.

Ci chiamano dismorfici pretendendo di metterci in un angolo e bloccare la nostra ricerca, recintarci e identificarci con un bel cartellino dotato di nome, definizione patologica, ma la verità è che questa è la storia di molti, perché il desiderio per antonomasia vuole di più. La fine dell’insoddisfazione è la fine del desiderio. Bisogna amarsi come si è, oggi si dice, dunque accontentarsi, trovare il bello che già sta sotto gli occhi, ma il desiderio è irrefrenabile, e noi siamo quelli che non smettono di volere, altro, meglio, di più. Che non stanno con quello che c’è, ma smaniano per sfinare, accrescere, raddoppiare, rimuovere, impiantare, tingere, ricostruire, sollevare, tonificare, noi corpi nuovi, da rinnovare, in fermento, mai paghi, noi corpi in eterna riscrittura, per lieve o straziante fantasticheria, mimesi, copia di un modello attraente già visto o inventato, farneticato.

Noi ridicoli ed esagerati, deprivati di calorie e rifatti, noi bambole di gomma e labbra a canotto, noi affamati o con gli impianti sottocutanei, noi incapaci di accodarci al flusso dell’amore di sé senza condizioni. Noi iperattivi, accaniti, fissati, fuori misura e sempre più nascosti, infognati ad assembrarci e cambiarci i colori. Noi poco convinti dalla buona novella che ci salva tutti, noi desiderosi di rispettare i diversi stili di incarnazione ma anche di stare al centro di noi stessi.

Giugno, luglio, è arrivato agosto: debole, inetto, da solo non ce la faccio, o quello che faccio non è abbastanza.

I primi chili persi in fretta ma poi gli inviti a pranzo di mia madre e mia nonna con conseguente rifornimento per la settimana a venire, un peccato buttare via tutto, pensiero che pure mi attraversa, l’incapacità a trattenermi di fronte al libero fluire dei giorni.

Dunque mi infilo in rete e digito nella barra di Google, il pozzo magico con cui sempre risolvo, ho risolto, oppure aggravato, in ogni caso cambiato scenario.

Scrivo: dietologo Milano, nutrizionista. E per le due ore successive passo in rassegna sconfitto i profili di professionisti che rivendicano il rifiuto di prescrivere diete, promettendo più che altro un giusto, equilibrato rapporto con l’alimentazione o dichiarando di prediligere approcci multidisciplinari: quando mi arriva un paziente che manifesta i segnali sbagliati, afferma uno di questi, per prima cosa lo mando dallo psicologo. Prefiguro l’ingresso nello studio di questi illuminati precettori del mangiare bene, le risate in faccia, data l’assenza di reale sovrappeso.

Così depenno e proseguo, proseguo, proseguo. Fino a lei, che avrei detto fosse slava, rumena e invece è greca: la nutrizionista dall’aspetto da letterina, velina, a cui è ricorsa la celebre beauty guru veneta per dimagrire.

Impietosa e ieratica, al primo sguardo, già chiaro: questa è cattiva. Figlia di Saturno, il rigore di Atena. Mi perdo tra i suoi video caricati su Instagram, una sequela di contenuti dall’impianto ideologico fermo agli anni Novanta, proprio quello che cerco: Cosa non mangiare a colazione se vuoi dimagrire/Cinque errori che fanno fallire tutte le diete/Cinque cose da non fare quando si va in vacanza – spesso capita di vedere gente sotto l’ombrellone con 40 gradi, consumare patatine, cracker, fritto misto, panini con salumi e affettati, occhi in camera, tono canzonatorio.

Alla visione delle braccia sottilissime che sbucano dalla scrivania, il mio ragazzo commenta: ma questa è anoressica. Salvo il contatto nelle note dell’iPhone, sito, indirizzo mail. A settembre appena si rientra prendo appuntamento.

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