I trentacinque anni mi minacciano e, dal balcone del mezzo del cammin di questa vita, comincio a contemplare alcune domande su quel che, fin qui, mi ha reso me stesso. Una in particolare mi visita di domenica sera, mentre in televisione si manifesta un incongruo Morgan Freeman travestito da cattivo di Star Trek. Risuona il pitch perfetto di JungKook dei BTS, i fuochi d’artificio sfavillano tra droni scintillanti, e altro spettacolare bric-a-brac trans-nazionale convola in mondovisione sulle coste nordorientali della penisola d’Arabia, per celebrare l’avvento dei chiacchierati mondiali di Qatar 2022. La domanda che tale accadimento m’ispira è: perché non me n’è mai fregato una mazza del calcio? O, più precisamente, perché gli ho resistito tanto tenacemente, per tutta l’infanzia e l’adolescenza e poi ancora nella mia giovinezza non poi così ostile allo sport?

Fregarsene del calcio

Questi mondiali assurdamente invernali, costruiti sulle spalle martoriate di schiavi migranti, comprati nella corruttela di una Fifa allo sfascio, offrono fin troppe vie di fuga a chi di calcio non si è mai particolarmente interessato. Non c’è nemmeno la nazionale italiana, che ogni pochi anni fa sentire anche noialtri distratti estranei (alcune eccezioni tra i maschi, e gran parte delle femmine) normali, cioè parte di quel collante di là dalle classi sociali e dalle identità che chiamiamo “tifo”. Giacché è questo il punto: i maschi normali, tipici, almeno in Italia, amano più o meno profondamente il calcio.

Non è una questione di statistica ma di pressione sociale, di folklore addirittura: ai maschi non si chiede conto delle ragioni del loro tifo ma semmai, quando si verifica, dell’assenza di esso, di là dalla ragione elementare (non mi piace) che basta invece per tante altre cose – nessuno batte ciglio se non segui il basket, o XFactor, o i certamina per la migliore poesia latina in stile oraziano su temi contemporanei.

Le irricevibili politiche del Qatar, sommate alla debacle dei nostri, adagiano sul tavolo un’invitante giustificazione, come quando Sanremo fu affidato a Tony Renis e dunque boicottato dalle case discografiche, mandando sul podio un redivivo Marco Masini attorniato da supposti “big” in realtà mai sentiti e per lo più da sagra. Si possono accampare, voglio dire, facili e auto-evidenti ragioni etiche, addirittura nazionalistiche, per continuare a fregarsene – e, per una volta, non parrà strano a nessuno. Purtuttavia, forse proprio per ironico effetto del medesimo istinto all’alternativa che mi ha sempre tenuto fuori dall’ecosistema affettivo del calcio – per la stessa tendenza caratteriale, intendo, che da bimbo mi ha fatto scoprire presto in bocca agli adulti il lemma “polemico”, nonché interrogare sull’identità di quel Bastiano cui mi associavano a causa di un’innata passione per il contrario – questo brutto campionato mi fa dubitare della mia ritrosia per il gioco in sé. Me ne fa considerare le bellezze.

Come dicevo, non è che il calcio non mi piaccia. È che proprio non mi interessa. Verso i quattro, forse i cinque anni, i miei genitori mi portarono ai campetti di via Mendozza, in un’erbosa valletta sul crinale del Raccordo anulare, per iscrivermi a calcetto. Non me ne fregava, ripeto, una mazza. Per citare mio padre, gli altri bambini andavano dietro al pallone e io andavo dietro alle farfalle. Per citare mia madre, gli altri bambini volevano il pallone e io dicevo loro «vuoi il pallone? e prenditelo!». Esauritosi l’anno, non rinnovarono l’iscrizione.

A casa mia d’altronde il calcio non si guardava granché (a parte i mondiali), sebbene papà fosse ben in grado di giocarci. Divenne chiaro al mare, e poi a scuola, che in tutte le altre case di maschi la partita settimanale era invece cruciale, e ispirava platoniche imitazioni nei cortiletti. Fu in quel passaggio forse che il mio disinteresse si tradusse per me in un distintivo identitario, in un dato che ho poi rivendicato come mio. Compagni e amici mi coinvolgevano in piazzetta, a Santa Marinella, e ottenni in effetti da nonna alcune maglie da calciatore (della Croazia, che mi piaceva tanto, e ovviamente dell’Italia) che rimangono le uniche cose da maschio calciante che abbia mai posseduto, e con cui mi presentavo sul campo. Ma ai piedi portavo le scarpe sbagliate, addirittura le ciabatte, e più avanti, già teenager, se partecipavo per non isolarmi dal gruppo di amici lo facevo magari coi jeans, coi pantaloni da skateboard, con quelli militari da zecca comprati a via Sannio.

Al fatto di non capire il gioco, di non aver mai sviluppato alcuna particolare abilità in esso, e di non essere animato dalla passione che coinvolgeva tutti gli altri, aggiungevo la zavorra di un outfit inadeguato. Non so se poi al liceo fossi proprio l’unico in classe a non partecipare ai rituali calcistici (partitelle, ora di ginastica, fantacalcio, tifo alla tv o allo stadio) che stabilivano un linguaggio comune per tutti gli altri. Rimanevo però di certo tra i pochissimi, forse in tutta la scuola, a non possedere praticamente nessun articolo dell’inventario materiale di quell’universo: né sciarpe e altri simboli da tifoseria, né tantomeno parastinchi, scarpini, calzettoni, guantoni, divise.

La scusa dello stile

Nella mia canzone preferita da adolescente, Sono come sono dei Bluvertigo, Morgan confessa che avrebbe voluto fare il portiere: «Sembrava che non fosse della squadra / era vestito meglio e stava fermo». Ho sempre associato la mia estraneità al calcio col secondo verso di questo distico: non mi piace stare in mutande e maglietta coi calzini al ginocchio, né correre in giro per contendere un pallone con altra gente. E tuttavia mi rendo conto ora che era una copertura. Per altri sport correvo, mi agitavo, vincevo l’imbarazzo per il corpo di ogni pubertà: la pallavolo, il karate soprattutto – ora lo squash, per cui rinuncio sfacciatamente all’elegante stasi cantata dai Bluvertigo – e adottavo un’oggettistica non meno stravagante.

La verità è che del calcio rifiutavo il proverbialmente, rotondo, pallone. Non mi interessava, e ora me ne faccio una colpa, essere della squadra. Temere l’unisono del tifo, così pericolosamente rassicurante nella promessa di sciogliere l’individuo in un coro unidirezionale senza responsabilità, è un istinto di cui mi sento ancora fiero. Le meccaniche della curva tendono fatalmente verso quelle del branco, della squadraccia o della squadriglia più che della squadra. Né rimpiango di non aver esperito granché la socialità da spettatore di partite, che agevola i rapporti tra maschi orientandoli nella stessa direzione e dunque rompendo le inquietudini più complesse degli occhi negli occhi.

Ma devo confessare che invece lo spirito di squadra – e di una squadra non sparpagliata in ruoli infine individuali, come davanti alla rete della pallavolo – ora, a ritroso, mi affascina. Mi dispiace non averlo coltivato: non aver capito che il punto di quello sport non era essere maschio come tutti, ma esserlo cooperando con altri maschi.

Spirito di squadra

Nel calcio c’è un aspetto d’intrinseca inclusività che mi è sfuggito per tutta la vita. Malgrado sia governato, ai massimi livelli, da economie gargantuesche, è un gioco che costa poco e può coinvolgere corpi assai diversi – mi colpisce che qui negli Stati Uniti, tra la gente comune, sia essenzialmente uno sport da femmine, e che i tiktoker di vent’anni scherzino sul fatto che sia il preferito dei ragazzi gay e mingherlini nei licei d’America dominati dall’aggressivo football, con il suo severo binario di genere tra nerboruti giocatori maschi e aggraziate cheerleader femmine.

Ora che il pallone è in mano a una nazione aliena, verso cui inquietanti islamofobie s’intrecciano a legittime critiche politiche, mi appare improvvisamente chiaro che, mondato dalle tossiche ossessioni in cui il patriarcato (e il capitale, suo parente) lo immerge, il gioco del pallone mi avrebbe offerto un’educazione alla relazione con gli altri maschi che ho cercato su più accidentati sentieri – quelli del gioco di ruolo, dei laboratori teatrali, di altri sport di squadra in cui tuttavia potevo sentirmi più autonomo, meno in contatto con gli altri.

Non avrei dovuto snobbare così pervicacemente gli entusiasmi che ora mi commuovono sui volti dei calciatori statunitensi quando segnano il primo goal, pur destinato a essere controbattuto da quello dei più tecnicamente sofisticati gallesi quando le loro esuberanze atletiche cominceranno a sfibrarsi sotto il peso di troppi minuti di dominio fisico. Sarei più bravo, oggi, a condividermi, a fare gioco di squadra. E, invece di scrivere questi articoli da marziano sul pianeta maschile in cui sono in realtà nato e cresciuto, parlerei più fluidamente la lingua franca dei miei simili.

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