L’artista afroamericana trasforma l’intimità in un racconto visivo su identità e razzismo. Le sue opere sono in mostra nella retrospettiva The Heart of the Matter a Torino
Sotto la luce teatrale di una lampada a sospensione, un tavolo di legno chiaro diventa palcoscenico: carte da gioco disordinate, un mazzo di rose che inizia a sfiorire, la tazza sbeccata del caffè, il fumo pigro di una sigaretta che disegna volute nell’aria densa di attesa.
Ogni oggetto è un segnaposto di vite, silenzioso come i limoni sbucciati e i teschi dei vanitas fiamminghi. Basta socchiudere gli occhi per trovarsi in un interno di Vermeer: la penombra razionalmente costruita e quella lama di luce laterale che, entrando dalla finestra invisibile, scolpisce il quotidiano e lo trasforma in allegoria domestica.
È in questa atmosfera sospesa che Carrie Mae Weems innesta il suo discorso, consapevole di quanto la mise-en-scène del privato possa parlare alla Storia.
È da quel silenzio operoso che germoglia la Kitchen Table Series. Nel 1990 l’artista, allora trentasettenne, trasforma la propria cucina in un set immutabile. Venti fotografie in bianco e nero, accompagnate da quattordici pannelli di testo, mettono in scena un dramma domestico in venti atti: la vita di una donna nera che, a turno, è amante, madre, amica, stratega di carte, pensatrice solitaria.
Il tavolo volutamente modesto, costringe corpi e sguardi entro un cerchio di feroce intimità; gli oggetti ricorrenti, la bottiglia di vino, il rossetto aperto, un pollo spogliato fino all’osso, diventano comprimari muti che rivelano desideri, conflitti, complicità.
L’unica fonte luminosa, la lampada a soffitto, funziona come un riflettore teatrale: santifica e interroga, scava ombre sulle pareti spoglie mentre l’artista interpreta se stessa e gli altri, amanti, figlia, amiche, si avvicendano come su un piccolo palcoscenico familiare.
La sua storia
Nata a Portland (Oregon) nel 1953, Weems cresce fra le eco delle lotte per i diritti civili. Dopo aver lavorato come organizzatrice comunitaria, studia fotografia al California Institute of the Arts con Allan Sekula e alla University of California, San Diego, affinando un linguaggio ibrido che intreccia immagine, testo, suono e documento d’archivio.
Dai ritratti di Family Pictures and Stories (1981-82) all’appropriazione dei dagherrotipi degli schiavi in From Here I Saw What Happened and I Cried (1995-96), dalle ricostruzioni cinematografiche di Constructing History (2008) ai memoriali sonori di Grace Notes (2016), l’artista compone un atlante di assenze e di omissioni istituzionali, denunciando come razza, genere e classe operino nella costruzione dell’immaginario pubblico.
La mostra
A Torino la retrospettiva The Heart of the Matter, aperta al pubblico nelle sale delle Gallerie d’Italia fino al 7 settembre 2025, riunisce oltre cento opere – fotografie, video, lightbox, documenti, molte presentate per la prima volta in Europa. Al centro della mostra il nuovo progetto “Preach”, realizzato per questa esposizione su committenza originale di Intesa Sanpaolo, un’ambiziosa e intensa installazione che ripercorre la religione e la spiritualità per gli afrodiscendenti americani attraverso le generazioni.
Il percorso comprende molti dei primi lavori dell’artista come la storica Kitchen Table Series, che illumina i nuclei successivi dedicati alla riscrittura dell’archivio coloniale, alla performance come atto di resistenza e al ruolo del museo come dispositivo di potere. Un catalogo edito da Allemandi, con saggi di Sarah Meister e Kimberly Drew, e un incontro con l’artista al Salone Internazionale del Libro di Torino hanno ampliato la riflessione sulla mostra, inserita nella cornice di EXPOSED Torino Foto Festival.
«Essere nera, donna, artista, fotografa», ripete Weems, «significa portare sulle spalle il peso e la promessa di una storia più grande di me». Nel 2013 riceve la MacArthur Fellowship; nel 2014 diventa la prima artista afro-americana con una personale al Solomon R. Guggenheim Museum; nel 2023 il MoMA acquisisce l’intero corpus della Kitchen Table Series. Riconoscimenti che suggellano un cammino pionieristico ma non ne attenuano l’urgenza politica: l’artista continua a sostenere che «l’arte possa ancora cambiare la vita di chi la guarda». Eccoci allora di nuovo a quel tavolo usurato.
La lampadina oramai è rovente, testimone di partite a domino finite all’alba, di risate complici, di silenzi carichi di sottintesi. Come nei vanitas secenteschi, la polvere si deposita sugli oggetti; ma nelle fotografie di Weems è una polvere parlante, intrisa di storie che la narrazione ufficiale ha lasciato fuori campo.
Nel cuore domestico dell’immagine l’artista trasforma un interno apparentemente ordinario in camera oscura della coscienza collettiva: là dove il gesto quotidiano si fa Storia e l’ordinario diventa monumento, ricordandoci che la politica, come la poesia, comincia, spesso, attorno a un tavolo di cucina.
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