Sin da bambino ho sempre letto di tutto: libri, giornali, riviste, fumetti, cataloghi e qualsiasi altra cosa trovassi di stampato da mettere sotto gli occhi e per qualsiasi cosa intendo proprio qualsiasi cosa, comprese pubblicazioni impossibili per un ragazzino nato a Bolzano come Il Gommone e la nautica per tutti.

Forse per via di questa fame insaziabile – oltre che per la distanza della città dove sono cresciuto dal mondo della grande editoria – per i primi decenni della mia vita non mi era mai passata per la testa l’idea di leggere o non leggere un libro e di comprarlo o non comprarlo sulla base di chi ne fosse l’editore. In quegli anni Einaudi o Scannacchiappolo editori per me pari erano, mi interessava in primis l’autore (quando ne scoprivo uno che mi piaceva leggevo tutte le sue opere, una dopo l’altra), poi il tema, la copertina e infine il titolo. Nient’altro. Ancora oggi vedo nella libreria di mio padre diversi libri di editori improbabili, segno che da qualcuno devo aver preso.

Un solo mito

La mia prima raccolta di articoli fu cercata e poi pubblicata da una piccola ma allora promettente casa editrice, diventai amico dell’editor e parlai spesso con lui delle dinamiche dell’industria; avevo appena finito di scrivere il mio primo romanzo e continuare a non avere un’idea di come funzionasse l’editoria non era per uno scrittore quell’idea saggia che può essere per un lettore.

Come molti editor non solo italiani anche quell’editor aveva un solo mito: Adelphi, la casa editrice di Roberto Calasso. Io avevo qualche libro Adelphi a casa, ad esempio avevo molto amato Che paese, l’America di Frank McCourt e La versione di Barney di Mordecai Richler, all’università avevo studiato Nietzsche nell’edizione Colli e Montinari – nettamente superiore a qualsiasi altra edizione italiana. Ricordavo ancora molto bene anche il cardo sulla copertina della Critica della ragion pura di Kant, un libro che in un inconscio gesto di sopravvivenza un mio compagno di corso lanciò giù da un camminamento sospeso sopra la biblioteca del dipartimento di filosofia, per fortuna senza prendere nessuno in testa. Comunque una bella edizione, si capiva anche dal rumore compatto che fece atterrando sul tavolo e terrorizzando le persone assorte nello studio. Le colpe lì erano di Kant, il cui libro, come disse con precisa insuperata un suo contemporaneo, «sembra scritto su carta da parati». 

Allora però sapevo riconoscere anche i Supercoralli, il blu di Sellerio, il giallo di Stile Libero, la carta grezza di Strade Blu, solo per citare alcune delle collane che abbondavano sugli scaffali delle librerie di quell’epoca; di nessuna di quelle collane però avrei comprato un libro a scatola chiusa, così come non lo avrei comprato di Adelphi.

Poi un giorno, durante un viaggio in tram a Milano diretti chissà dove, il mio primo editor disse con il fare corrucciato di chi sta parlando di un trucco fondamentale, un trucco di cui si capisce l’assoluta importanza ma che non si riesce a replicare: «Lo sai quante copie ha venduto Leggere Lolita a Teheran? Ed è un libro totalmente illeggibile», forse non disse “totalmente illeggibile” bensì qualcosa di peggio, era ed è rimasto sempre piuttosto tranchant. Il senso comunque era che Adelphi oltre a pubblicare bei libri era anche capace come nessun altro di vendere libri brutti donandogli un alone di importanza, il che è una specie di super potere e, ammettiamolo, il sogno indicibile di ogni piccolo e grande editore.

Per inciso non ho mai letto Leggere Lolita a Teheran – per qualche motivo quella recensione non mi aveva attirato granché – e non mi stupirei se si trattasse in realtà di un libro bellissimo, il punto però qui è un altro, ed è quello su cui i detrattori e i devoti di Adelphi si trovano tutto sommato d’accordo: i libri della casa editrice hanno un’aura, un qualcosa che li qualifica anche al di là del testo. In quell’occasione comunque io pensai più che altro alle copie che si sarebbero potute vendere anche nel caso il mio romanzo si fosse rivelato brutto e, credo sfregandomi le mani, telefonai al mio agente per chiedergli di aggiungere Adelphi alla lista degli invii del mio manoscritto. Acconsentì, facendomi però velatamente capire che sarebbe stata una perdita di tempo perché quella casa editrice molto di rado pubblicava autori italiani viventi.

Andò a finire che fra tutti gli editori a cui era stato inviato il manoscritto Adelphi fu la prima casa editrice a richiamare e lo fece nella persona di Matteo Codignola. In Memè Scianca Calasso ricorda il ruolo di grande scopritore di talenti di Ernesto Codignola, Matteo, suo pronipote, si comportò con me in modo simile, per cui ho riconoscenza nei suoi confronti nonostante il suo carattere non sempre facile (scommetto che lui direbbe lo stesso di me ed entrambi riterremmo queste rispettive valutazioni ingiustificate, il che nonostante tutto mi fa sorridere).

Ci incontrammo, ci trovammo d’accordo su molte cose che non ci piacevano (ottimo segno), poi mi regalò un sacco di libri Adelphi e tanti altri me ne fece recapitare a casa per un lungo periodo. Capii troppo tardi che il meccanismo era simile a quello dello spacciatore che inizia qualcuno a una droga per indurgli una profittevole dipendenza.

Ogni libro pubblicato da Adelphi in ogni singola collana doveva passare per il vaglio diretto e attentissimo di Calasso, il che credo non accada in nessuna casa editrice di quelle dimensioni. Sta di fatto che considerati i suoi altri compiti e l’attività di scrittore, questo creava una mole di lavoro enorme e i tempi di conseguenza erano molto dilatati, nel frattempo arrivarono delle offerte da altre case editrici importanti e il mio manoscritto prese un’altra strada. Tuttavia più si accumulavano in casa mia i titoli Adelphi provenienti, via Codignola, dai meandri più profondi del catalogo, più andava finendo la mia indifferenza storica e – a quel punto me ne rendevo conto – quasi blasfema nei confronti di quale fosse la casa editrice di un determinato libro.

Mi era diventato chiaro il grande lavoro che c’era in tutta la grande editoria – non solo in Adelphi – e mi sembrava anche di aver capito cosa s’intendeva con la tanto discussa aura della casa editrice di Calasso, quell’aura che la rendeva amata, odiata e soprattutto invidiata.

Il brutto Adelphi

Quello che però ai detrattori mi pare sfugga è che fra i tanti fattori che contribuiscono alla creazione di quell’aura il più importante sia la pratica di pubblicare meno libri brutti possibile. So che sembra una contraddizione ma la capacità di vendere in qualche occasione molte copie di (presunti) brutti titoli dipende direttamente dal fatto di averne fatti in precedenza il meno possibile. È un segreto di Pulcinella ma nell’editoria italiana – che con il suo sistema di ordini e di resi assomiglia molto a uno schema Ponzi – gli editori devono continuare a inondare le librerie di nuovi titoli, pena il collasso finanziario, e quindi l’idea apparentemente semplice di pubblicare meno libri brutti possibile diventa all’atto pratico qualcosa di difficilissimo.

Si può perciò rovesciare la questione: molti editori hanno tanti bei titoli in catalogo, pochissimi editori hanno pochi titoli brutti, da questo deriva il fatto che sempre pochissimi editori siano in grado di offrire al lettore una sorta di garanzia a scatola chiusa, e questo nonostante un rapporto fiduciario del genere sia la strategia commerciale più efficace in assoluto.

Un’altra questione fondamentale è quella di intendersi su cosa sia non tanto un libro bello quanto un libro brutto: i libri non belli di Adelphi sono spesso strani, anomali, periferici, complicatissimi, talvolta furbeschi o del tutto esoterici, ma proprio brutti solo di rado. Dei circa 500 Adelphi che ho a casa oggi ce ne sono solo una manciata che potrei definire autenticamente brutti mentre esistono case editrici di cui un libro su due è un delitto contro le foreste. Fra quei pochi libri brutti non potrei poi mai trovare un instant book, il libro di un influencer, il romanzo di un non scrittore, il titolo scritto con la zappa da un giornalista televisivo.

Il brutto Adelphi, quando capita, è un brutto che prende comunque sul serio il concetto di libro e ha alle sue spalle un’idea dignitosa di letteratura: se la ciambella non riesce con il buco siamo piuttosto certi che almeno sia stata pensata in origine come una ciambella. Non è poco e credo conti molto di più di tutte quelle cose, pur importanti, che vengono sempre citate parlando di Adelphi: le copertine, una certa sprezzatura, il misticismo felicemente privo di kitsch, l’estrema selettività nei confronti degli autori italiani (se vuoi farti amare da un borghese, si sa, devi trattarlo un po’ male), il porsi come alternativa alla chiesa dei comunisti e a quella dei cattolici (fino a farsi un po’ chiesa a propria volta, seppur di netta minoranza), l’apertura a un ampio numero di autori mitteleuropei che prima in Italia erano ignorati o poco valorizzati. E anche un certo snobismo, è vero, ma non nel senso che Giuseppe Pontiggia, autore e consulente di Adelphi, dava alla parola ovvero «innamorati (delusi) della massa», quanto piuttosto in quello di giudizio estetico intransigente, sensibile per opposizione alla vulgata del tempo storico, ma senza alcun rammarico nei confronti di questa mancata riconciliazione.

È significativo che proprio in Bobi, Calasso si rifiuti di usare per Bazlen la parola “sciamano” perché ormai deviata dall’epoca verso un significato intollerabile e non più rappresentativo di quello che è stato il primo ispiratore del catalogo Adelphi.

Il progetto

Al centro del progetto adelphiano mi sembra ci sia l’estetica e nello specifico un’estetica che si declina su tanti valori diversi ma di certo rifiuta l’idea di poter essere raccolta in blocco all’interno di una dimensione meramente razionale e analitica, una condensazione che renderebbe il progetto della casa editrice la versione solo poco più complessa di un moderno power-point, di una tag line o di un’altra di quelle semplificazioni idiote che scandiscono la quotidianità lavorativa del nostro tempo storico.

L’aura di Adelphi, per come ho imparato a percepirla, risiede precisamente in quella cifra estetica che attraversa i testi e le copertine e proviene dalla costanza sempre in divenire di un progetto che rifugge il conformismo almeno quanto rifugge le incrostazioni dell’anticonformismo. Un progetto che assomiglia a una specie di lepre in una perenne fuga in avanti che però non si castra nell’avanguardia ma ricerca sé stessa e il simile a sé in ogni tempo storico e in ogni spazio geografico. Più che un canone è un’intuizione di somiglianza che si coglie per un momento e altrettanto in fretta scompare.

Tutto questo è naturalmente arbitrario, spesso ingiusto, e lascia fuori dal proprio perimetro moltissimi grandi libri ma quella che per tanti aspetti è la miglior casa editrice italiana non è mai stata per questo una casa editrice totale, né tanto meno unica nel senso di assoluta monopolista della qualità, quanto piuttosto quella con l’identità più chiara grazie a una intransigenza inscalfibile, silenziosa e fedele a sé stessa. È anche un caso felicissimo figlio non solo di intelligenze straordinarie ma anche di circostanze sociali, storiche ed economiche propizie; penso per contrasto alle persone di grande talento e capacità che oggi non avendo né i mezzi né il patrimonio sociale per lanciarsi in imprese autonome lavorano nei grandi gruppi, sempre forzatamente alle prese con logiche che non sono quelle del laboratorio editoriale ma quelle della grande industria. Per non parlare del problema di vivere in un tempo storico in cui i device digitali mangiano tutto il tempo di attenzione dei possibili lettori.

Perché possa esistere qualcosa di raro e prezioso come Adelphi sono insomma tantissime le stelle che devono allinearsi, non solo il talento generazionale e indiscutibile di un maestro assoluto come Calasso. Ciò non toglie che molti editori italiani mettano la loro intransigenza in battaglie politiche, morali e di attualità e siano poi disposti con una certa docilità a scendere al compromesso commerciale e che questo invece non sia mai stato il caso dell’Adelphi di Roberto Calasso. Questa convinzione, nascosta e ostinata, finisce nel lungo periodo per fare sentire in maniera chiara e forte la voce di un marchio editoriale.

Un’altra delle caratteristiche di Adelphi che più sarebbero da imitare e raramente vengono imitate è la prospettiva temporale lunga: l’idea cioè di fare sacrifici oggi per raccogliere frutti domani. È anche grazie a questa prospettiva di ampio respiro, credo, che Adelphi ha potuto pubblicare con successo libri belli che sarebbero stati del tutto impossibili per gli altri editori.

Chi altro sarebbe mai riuscito a far leggere all’intellighenzia italiana, afflitta dai suoi ben noti limiti di conformismo, libri come la coscienza diacronica di Julian Jaynes o i saggi di James Hillman? La stessa cosa è successa spesso con la rivalutazione di autori già pubblicati da altri, pur capaci e agguerriti, editori: scrittori come Emmanuel Carrère o Roberto Bolaño, per arrivare fino all’esempio più noto: Georges Simenon. Lo scrittore francese accenna in Memorie intime al fatto che in Italia i suoi “romanzi duri” non fossero presi sul serio come in altri paesi – il conformismo italico, sempre lui – e questo nonostante gli sforzi di Mondadori, allora suo editore, di organizzare delle conferenze accademiche proprio allo scopo di elevare il suo status. La realtà è che non servivano conferenze, serviva un’aura, che è esattamente ciò che Calasso è riuscito poi a fornire a Simenon.

Interprete dei desideri

Forse perché coglieva l’insufficienza di una lettura razionalista della realtà, sta di fatto che Calasso è stato anche un grande interprete dei desideri profondi del suo pubblico, che, pur “alto” e spesso colto, non era per nulla ignifugo alle mode, alle fascinazioni istintive, alla tendenza a mitizzare. Un pubblico sensibile più al fascino silenzioso dell’esclusione che ai tentativi espliciti di seduzione.

Nelle tante straordinarie quarte di copertina scritte da Calasso emergono almeno due capacità: 1. Quella di invogliare, con una descrizione di poche righe, alla lettura di un libro cogliendone in maniera chirurgica i punti di interesse, senza per questo stravolgere la natura del testo piegandolo alle mode del momento. 2. Una grande conoscenza dei vizi e delle virtù del pubblico a cui il libro era destinato: uno straordinario senso del lettore ideale, che non era tanto un target di mercato quanto piuttosto qualcosa verso cui allo stesso lettore piaceva tendere.

In questo senso un libro Adelphi era sempre anche un libro “migliorativo” ma non in termini sociali o morali, bensì individuali e spesso laterali. Niente come una quarta Adelphi ben riuscita sa cogliere il potenziale lettore con le difese abbassate e colpirlo esattamente là dove si annida la sua propensione all’acquisto. Lo fa il più delle volte senza l’ausilio di fascette e blurp – tutte cose che comunque all’occorrenza anche Adelphi usa – ma soprattutto senza utilizzare iperboli ingiustificate e paragoni grotteschi da venditore pronto a celebrare l’improbabile capolavoro oggi, rovinandosi così la credibilità di domani.

Il tempo dei libri

Sempre su proposta di Codignola finii poi per pubblicare il mio libro successivo proprio per Adelphi e dopo aver atteso questa volta il vaglio di Calasso, lo incontrai nel suo ufficio a Milano. Parlammo per un’ora circa e fu una delle conversazioni più piacevoli che mi sia capitato di fare nel mondo dell’editoria. Non mi diede mai l’impressione di essere una persona intenta in ogni momento a difendere il proprio mito, sapeva bene chi era e sembrava non badarci, il segreto in fondo stava anche in quello. Parlammo di letteratura e di scrittori contemporanei – stranieri, perché su cosa pensasse della letteratura italiana contemporanea italiana il catalogo di Adelphi è piuttosto eloquente –, nonché di un miliardario della Silicon Valley che voleva finanziare un’edizione critica inglese dei suoi libri. Disse che l’hybris dei tycoon digitali lo impressionava, e non mi è più capitato di incontrare una persona di quell’età che fosse così ferrata su questi aspetti tanto centrali del nostro tempo storico. Mi parve un’intelligenza non solo notevolissima, come era ovvio che fosse, ma anche incredibilmente multiforme e aperta al mondo.

A un certo punto tirò fuori un foglio e una penna mi chiese di segnalargli qualche titolo interessante. Calasso a me. Riuscii a tirare fuori una breve lista motivata e lui li segnò uno per uno. Un grande editore è talmente ossessionato dalla sua missione da non smettere mai di cercare un buon libro, in qualsiasi situazione.

Quando firmai il contratto una persona mi disse: «Ora ti odieranno tutti», fu l’unico momento di autoconsapevolezza dell’aura di cui fui fatto partecipe durante tutta quell’esperienza, per il resto i miei rapporti con l’editore furono sempre improntati al più assoluto understatement. Quella frase rimase l’unico squarcio sul mondo segreto di Adelphi, sulla sua consapevolezza di sé, che pure senz’altro esiste. Non so se qualcuno prese davvero a odiarmi, di solito gli odiati sono sempre gli ultimi a saperlo, di certo però mi ritrovai alle prese con una piccola schiera di adulatori che tramite me speravano di arrivare a Calasso. Politici soprattutto, ma non solo. Non conoscevano il mio carattere restio a questo genere di traffici e in ogni caso sopravvalutavano di parecchio la mia influenza. Calasso è stato un uomo di altri tempi, non solo in questa distanza dalle corti in cui in Italia è facilissimo perdersi e mai più ritrovarsi.

Ricordo che una volta ebbi l’ardire di mandargli assieme a un manoscritto anche un documento tecnico che ne riassumeva la storia, una sorta di pitch per serie tv che avevo preparato per un produttore televisivo: anche per Adelphi, come per tutti gli editori, un libro che finiva sullo schermo aveva un valore diverso. Finì che ne discutemmo al telefono, Calasso non riusciva a capire perché mai un produttore non avrebbe dovuto leggere l’intero libro prima di decidere se trarne o meno un derivato, e lo disse con una naturalità tale che non me la sentii di dirgli che quel documento era stato preparato seguendo alla lettera le linee guida di una piattaforma di streaming americana, una piattaforma che voleva tassativamente che i progetti venissero presentati in quella forma, ben precisa e sempre uguale.

Non me la sentii neppure di raccontargli quante volte agenti, registi, attori, sceneggiatori mi avevano ripetuto fino all’ossessione di scrivere riassunti il più stringati possibile perché i libri «non li legge nessuno». Non c’era ovviamente spazio per un’idea blasfema del genere nel mondo di Calasso: i libri erano la cosa più importante del mondo e perché potessero esserlo andavano letti per tutto il tempo che richiedevano. Qualche giorno dopo raccontai questa storia a un mio amico scrittore e sceneggiatore, poi rimanemmo per qualche secondo in silenzio, entrambi pensando con nostalgia a quanto doveva essere bello e invidiabile, il mondo dei Calasso.

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