Strange Parallel è un breve documentario su Elliott Smith girato da Steve Hanft nel 1998, l’anno della consacrazione al grande pubblico. È l’anno in cui il cantautore suona Miss Misery alla notte degli Oscar, entrando nelle case d’America con la sua chitarra e una canzone indimenticabile, candidata tra le migliori originali per la colonna sonora del film Will Hunting di Gus Van Sant.

Nel documentario di Hanft, regista conosciuto soprattutto per i suoi video musicali, Elliott Smith non ha nessuna intenzione di rinunciare alla sua natura sincera da cantautore a bassa definizione. E così lo osserviamo mentre parla o cammina tra i boschi con la sua chitarra, e i capelli gli cadono sulla fronte senza che abbia importanza.

In un frammento video Elliott si siede a terra immerso nella natura, suona Waltz #2 in versione acustica ed è semplicemente splendido: ti fa tremare per la sincerità. Basta poco per cadere nell’incantesimo della musica di Smith: la sua voce viene da un altro mondo, una sua canzone ne chiama un’altra e un’altra ancora, e così ad libitum. È per incantamenti simili e infiniti ritorni all’ascolto, che il cantautore americano continua a essere ricordato anche a due decenni di distanza dalla sua morte. Una voce così non si lava via.

Le sue radici

Elliott Smith aveva una maniera tutta sua di fare musica. Sapeva ridurre la canzone alla sua essenza, scarnificare, trovare la melodia. Nella sua musica si sentono riecheggiare i fantasmi dei Beatles, di Kurt Cobain, di certi oscuri cantautori del tempo perduto. Ma nella sua opera c’è anche una imponente dose di diversità e originalità.

Elliott Smith era visionario e istintivo, i suoi dischi sono polveriere di melodie melanconiche, intarsi post-grunge, ballate lo-fi, interferenze folk e punk. C’è qualcosa di intimamente diverso in certi suoni. Tutto è diretto, non c’è inganno. Smith si muoveva come un genio nascosto del rock indipendente degli anni Novanta che faceva suonare la musica naturale e commovente – perché in quella musica e in quelle canzoni c’è anche tutta la sofferenza indicibile dell’essere umano Elliott Smith, la sua storia di abusi, dipendenze, fughe dalla depressione e continua ricerca di nascondigli.

La profezia

«Penso che alla fine il mondo della musica mi schiaccerà, ma sono pronto», aveva detto Smith in un frammento di Strange Parallel quasi a presagire il futuro. Che cosa sia stato a schiacciare Elliott Smith non si potrà mai dire con certezza. Sul suo conto si sussurrano ancora tante leggende, ci si interroga sulla sua morte e persino sulla mano che reggeva il coltello che gli ha trafitto il cuore. Quel che è certo è che Smith era pieno di dolore, che si iniettava in corpo ripetuti tentativi di evasione, che non sempre questi tentativi riuscivano, e che da questi dèmoni alcolici sono nate canzoni di sublime meraviglia. Between the Bars o Needle in the Hay.

«Non mi sento più triste di chiunque altro; a volte sono felice, altre volte no», aveva detto una volta parlando di sé stesso, mettendo in chiaro come la speciale tendenza alla fragilità che veniva fuori dalla sua musica e dalla sua anima, fosse piena di contraddizioni e di combattimenti interiori.

I traumi

Elliott Smith aveva avuto un’infanzia tormentata, aveva subito abusi dal patrigno, era fuggito a Portland dal padre. Negli anni allo Hampshire College aveva letto la femminista radicale Catherine MacKinnon e si era sentito in colpa per essere un uomo bianco. C’è sempre una parte di disagio nel cuore di Elliott Smith – quando legge Kierkegaard o Samuel Beckett, quando suona la chitarra e il pianoforte, quando fonda gli Heatmiser, o quando pubblica il suo primo album solista, Roman Candle. Elliott Smith si porta sempre dietro il sospetto di essere un intruso. Accende la candela della diversità nel buio e ci soffia sopra per spegnerla.

Si dice che Elliott Smith sia il cantautore della gente depressa, ma la sua musica si è dimostrata capace di evadere da ogni genere di etichetta stringente, e per questa ragione ha continuato a resistere al tempo. Le tracce del suo passaggio sul mondo della musica sono ovunque: Smith è diventato l’ispiratore occulto per tanti musicisti. Alcuni sono rimasti sconosciuti, altri si sono fatti conoscere: in ogni caso Smith è stato evocato, cantato, suonato, tirato per il colletto.

L’eredità

Qualche settimana fa Robin Pecknold dei Fleet Foxes si è esibito in un concerto solista a New York dove ha suonato una serie di cover di canzoni a cui è legato, e non poteva mancare un omaggio a Elliott Smith, una figura che ha influenzato Pecknold nel suo percorso di cantautore. L’ascendenza di Smith spunta fuori negli album più diversi. In un episodio sonoro di Blonde di Frank Ocean incappiamo in un verso di A Fond Farewell di Elliott Smith, e la cosa non può lasciare indifferenti.

Nel corso degli anni sono usciti anche dischi di tributo, come Say Yes! A Tribute To Elliott Smith del 2016, che ha raccolto le interpretazioni delle sue canzoni da parte di diversi artisti del mondo indipendente, da Julien Baker, grande fan, a Sun Kill Moon e Waxahatchee. Scavando a ritroso nel tempo si rintraccerà anche un disco tributo tutto italiano, si chiama Loves You More e contiene cover di Edda, Dellera, Jennifer Gentle.

Tributi, omaggi, reinterpretazioni, tutto questo movimento sussultorio continuerà ancora perché Elliott Smith è stato uno di quei rari artisti capaci di influenzare generazioni di suoni a venire. Smith ha lasciato il riverbero della sua voce sulla musica: ancora oggi molti provano a copiare il suo stile, il suo modo di cantare a cuore aperto e un pezzo di compromettente sincerità.

Omaggi e ristampe

Per la cantautrice californiana Phoebe Bridgers la scoperta di Elliott Smith è paragonabile alla scoperta del fuoco. Adrienne Lenker (Big Thief) è tra le musiciste che più sembrano ricordare l’attitudine sciolta e sbrigliata di Elliott Smith: anche a lei piace ritirarsi in una zona d’ombra sotto gli alberi a suonare la chitarra e decantare parole. È soprattutto una parte del cantautorato indipendente ad avere trovato ispirazione nelle canzoni di Elliott Smith – dal napoletano Gnut a Conor Orbest (Bright Eyes) e Alex G, fino a certi esperimenti solisti di Aaron Dessner dei National.

Ma Elliott Smith è presente anche in tantissime cassette fantasma registrate in casa che non sono mai arrivate a replicarsi o a essere ascoltate da più di dieci persone. Elliott Smith è presente sui murales delle strade, nelle mappe dei luoghi di Portland, negli stereo di un bar di provincia, nelle infiltrazioni acustiche della grancassa di una chitarra suonata in un garage.

Si può dire che Elliott Smith non abbia mai lasciato questo mondo. Forse il suo corpo è sepolto, ma le sue tracce restano a futura memoria. Più passano gli anni che ci separano dalla sua morte, più la sua eredità si estende, e oltre ai tributi e agli omaggi l’industria discografica tira fuori le ristampe.

L’ultima è quella di From a Basement on the Hill, il disco postumo ripubblicato a fine novembre da Kill Rock Star in occasione del ventesimo anniversario. Torna in una versione rimasterizzata da Larry Crane e Adam Gonsalves.

From a Basement on the Hill veniva pubblicato originariamente nell’ottobre del 2004, un anno dopo la morte di Elliott Smith, e suonava come il suo epitaffio – l’ultimo XO. Lasciarlo suonare ancora oggi vuol dire ripercorrere a ritroso la parabola umana e artistica di Elliott Smith, protettore dei cantautori moderni, che non ha ancora esaurito il suo tempo.

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