Nell’estate del 1982 una scrittrice turca sul finire dei trent’anni se ne andava in giro per l’Italia inseguendo fantasmi di scrittori, da Pavese a Svevo, quando una sera le capitò di incrociare gli italiani in festa per la vittoria della nazionale alla Coppa del Mondo in Spagna. Nel suo Viaggio al termine della vita Tezer Özlü ha una voce malinconica, distaccata, seducente, e racconta (anche) quei caldi giorni di luglio
C’è stato un tempo in cui la nazionale di calcio italiana si qualificava ai Mondiali, e magari li vinceva pure. Nell’estate del 1982 una scrittrice turca sul finire dei trent’anni se ne andava in giro per l’Italia inseguendo fantasmi di scrittori, quando una sera le capitò di incrociare gli italiani in festa per la vittoria della nazionale alla Coppa del Mondo in Spagna. Nel suo Viaggio al termine della vita Tezer Özlü ha una voce malinconica, distaccata, seducente, e racconta (anche) quei caldi giorni di luglio dei Mondiali 1982.
Il libro, pubblicato in italiano da Crocetti editore, nella sua versione originale in tedesco ha un titolo più diretto, Sulle tracce di un suicidio – perché il taccuino di parole, memorie e scritture di Tezer Özlü è soprattutto ispirato dal suicidio di Cesare Pavese, e il suo vagabondaggio è sia un mettersi in moto alla ricerca di un’anima affine, che una sragionata irrequietezza («Mi sono fermata in numerose stazioni, porti, aeroporti. Ho sempre voluto partire con chiunque partisse. Mettermi in viaggio»).
Il viaggio di Tezer Özlü è fatto di treni, di binari, di valigie, di passaggi a livello, di incontri e avventure di una notte, di concerti mancati e di canzoni, di bevute alcoliche e notti girovaghe per strade, ferrovie e camere d’albergo.
Soprattutto Tezer Özlü si riversa con tutto il corpo sul suo taccuino: è una scrittrice pura, ingorda, che afferra la pagina e ci si confessa sopra. Che la scrittura sia anche un atto fisico, fatto di calpestamenti di dita e inchiostro, di dolore e materia, di bruciature e carta, è qualcosa che viene fuori naturale dalla lettura di questo libro diverso, selvaggio, non classificato. Tezer Özlü è morta troppo giovane, a circa 42 anni, per una malattia: ci ha lasciato solamente poche pagine, testimonianza di una vita che non è voluta scendere a compromessi e si è bruciata sui quaderni.
L’itinerario del Viaggio al termine della vita (Berlino-Amburgo-Praga-Vienna-Zagabria-Belgrado-Niš-Belgrado) è un andirivieni di movimenti, inquietudini e incandescenze. Seguiamo la scrittrice mentre attraversa città, posseduta dalla letteratura, va a salutare Franz Kafka sulla sua tomba a Praga, arriva a Trieste per seguire Svevo, o forse un’accidentale parte di sé stessa.
Il mare di Trieste
Tezer Özlü è una di quelle scrittrici che sanno darsi del tu, come se parlasse a un angolo della sua stessa testa: «Quando leggevi Svevo mentre a Istanbul scoppiavano terribili disordini, avevi invidiato profondamente i personaggi dei romanzi che passeggiavano per i viali di Trieste», scrive a proposito dell’impulso che l’ha portata a Trieste, felice di ritrovare il mare, dopo essersi tanto smarrita per le vie dell’Europa centrale.
Il risveglio a Trieste accade dentro una camera d’albergo. Non è sola, ha passato la notte con un ragazzo, uno sconosciuto incontrato alla stazione di Belgrado, un giovane greco che sta andando a Torino per il concerto dei Rolling Stones.
È una domenica come un'altra, Tezer non sa che fare insieme al ragazzo: desidera solamente perdersi per le strade di Svevo e godere della gioventù che il greco le restituisce. Gli propone una passeggiata, piove appena, ma camminano, spiove e passeggiano fino a sera. All’improvviso le strade si svuotano, dappertutto si ascolta la diretta di una partita di calcio, restano solo lei e il greco a camminare.
È il ragazzo a dirle che c’è la finale della Coppa del Mondo, Italia Germania Ovest. Trieste, la città più di confine di tutte, si ferma per la partita dell’Italia. Quasi tutti guardano la televisione, ascoltano la radio. Ogni tanto nell’aria si agita un gol. E forse per via delle strade svuotate, Tezer Özlü diventa più disincantata, accompagna il ragazzo greco alla stazione per prendere il treno per Torino, quasi lo spinge ad andare via. La sera, nella camera d’albergo, sente la festa che scoppia dappertutto. «Credo che per festeggiare tutta la città si sia riversata per le strade», scrive.
La fatalità della festa
Tezer capisce che è inutile andare a dormire, si arrende alla fatalità della festa e al rumore dei clacson, scende nella reception dell’albergo, guarda l’impiegato che solleva una grossa bandiera, esce fuori anche lei: davanti all’hotel è pieno di auto e gente e bandiere tricolori. «Io che non volevo sapere niente della coppa del mondo di calcio, ecco che la vittoria mi scoppia sulla testa. Non riesco a pensare più a niente», annota prima di addormentarsi.
Al mattino la radio le ricorda subito quello che è successo la sera prima: la vittoria dell’Italia. «Da quando ho lasciato Berlino non ho avuto più notizie sulla guerra delle Falkland o sul conflitto israeliano contro la Palestina», scrive, e subito dopo annota una lunga citazione di Cesare Pavese, a cui non ha mai smesso di pensare durante tutto il viaggio.
Anche adesso, da Trieste, Tezer pensa allo scrittore di Santo Stefano Belbo, perché a Pavese si sente legata dal destino che li ha fatti nascere lo stesso giorno e da una vocazione al suicidio. Nel Viaggio al termine della vita, Trieste è solo una tappa, l’odore ritrovato del mare, un incrocio con la città di Italo Svevo, un’altra delle città che fanno parte del regno della letteratura.
Ancora a Trieste, al mattino, la scrittrice turca cammina per le strade - In Italia il lunedì mattina i negozi sono chiusi. I titoli dei quotidiani riportano a caratteri cubitali: “CAMPIONI DEL MONDO! 3-1 EROICI!” –, ma è Santo Stefano Belbo la destinazione finale, è là che vuole arrivare. Ha amato le pagine di Kafka e di Svevo, ma è stato Cesare Pavese a parlargli le parole più profonde, è anche per lui che sta vagando e salta sopra i treni come stesse facendo un interrail.
O forse Pavese è solo una scusa, e Tezer Özlü ha bisogno di stare in movimento per trovare le parole, fuggire da sé stessa, dalle stringenti etichette sociali, dal dolore, dal labile confine tra ragione e follia.
Prima di partire verso il Piemonte, Tezer fa un bagno nel mare Adriatico, nuota al largo; dopodiché si consegna ancora alle stazioni dei treni, dove tutto è ruggine. «Più mi avvicino a Torino e più penso a Cesare Pavese trovato morto in una stanza con i suoi vestiti addosso», scrive. E ancora: «Stanotte voglio girovagare per le strade di Torino che ho conosciuto attraverso le sue descrizioni». Torino però le appare spietata: «Questa città ha una forza misteriosa. Una forza nascosta dalla possibilità e dal desiderio di suicidio».
Cosa stiamo leggendo, ci si domanda mentre si va avanti tra le pagine di questo strano libro magico: appunti, note, pensieri, odissee, prosa randagia; per cinque volte, alla fine del Viaggio, Tezer Özlü ripete «devo andare», quasi che fosse un canto. Alla fine lei va, e ci lascia addosso la sensazione come di aver viaggiato anche noi.
Di avere visto la festa dei Mondiali 1982, di avere nuotato a Trieste, di avere mancato per poco i Rolling Stones, di avere passeggiato sulle colline di Pavese, bevuto vino coi versi della gente spaesata in testa.
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