La geopolitica, come scienza, detiene uno strano record: è tanto chiara e presente nella pratica comune quanto fumosa e sfuggente dal punto di vista teorico. Si fatica infatti a trovare una definizione univoca e resistente nel tempo del “sapere geopolitico”, che solitamente viene invocato per interpretare e comprendere i rapporti intercorrenti tra le comunità umane e i luoghi che esse occupano o in cui si identificano. Cioè, in buona sostanza, tra i gruppi di esseri umani che si confrontano su/per dei territori.

Studio empirico antichissimo, che si potrebbe far risalire ai primi scontri per contendersi caverne e mandrie di animali migliaia di anni fa, è solo a cavallo tra Otto e Novecento che la geopolitica fa capolino in Europa come scienza vera e propria che si occupa dei rapporti tra gli stati. E non è un caso che la sua culla sia la Germania di fine Diciannovesimo secolo, in un paese cioè di recente unificazione che cerca di costruire il proprio ruolo nel mondo e sviluppa presto una coscienza diretta del rapporto tra stato e individuo.

Un impero giovane e potente, dominato al suo interno dalle strutture e dalle idee di uno stato, il regno di Prussia, di cui già nel Settecento il marchese di Mirabeau dice: «Non è uno stato che possiede un esercito, ma un esercito che possiede uno stato». Una compagine ben strutturata, con forti legami tra l’apparato economico, quello politico e quello militare, e le cui élite di potere esprimono la volontà di proiettare questa forza fuori dai confini in cui si ritrova.

È da questo brodo di coltura positivista che il sapere geopolitico si sviluppa divenendo uno degli studi sociali che più ha condizionato il secolo Ventesimo, accolto come una “scienza necessaria” allo sviluppo delle nazioni.

Il racconto della nazione

Anzi, in un certo senso la geopolitica, nella sua espressione più diretta, è figlia del concetto stesso di nazione: quella “comunità immaginata”, per dirla col sociologo Benedict Anderson, su cui si proiettano nel tempo le forme di rappresentazione delle élite di una comunità che ben presto si consolidano attorno a motivi identitari definiti: lingua, cultura, territorio, ecc. 

Le strutture statali si definiscono in modo più netto attorno a questi paradigmi mentre i vari governi si attrezzano per diffondere e cementare questo racconto pubblico ad esempio attraverso strumenti come la scuola, che deve insegnare ai sudditi/cittadini chi sono, da dove vengono e, soprattutto, dove devono andare.

Una volta costruita l’impalcatura e date parole d’ordine chiare e semplici (per dirne una l’antico ma sempre efficace Dio, Patria, famiglia inventato da Mazzini ma più volte tornato di moda) il sistema di potere che guida le strutture statali può agevolmente far leva su meccanismi emozionali per indirizzare le scelte del paese al proprio interno e anche, perché no?, anche al di fuori dei propri confini.

Il linguaggio si fa inclusivo passando attraverso artifici rappresentativi semplificati ma potenti che spesso per funzionare hanno bisogno di escamotage retorici per cementare la comunità. In questo punto della sua crescita come concetto la nazione, si potrebbe dire, “incontra Darwin”, dando vita a un connubio che avrà implicazioni durature nel modo di leggere la politica degli stati per tutto il Ventesimo secolo e oltre.

È infatti nel momento in cui il racconto della nazione riesce a darsi letteralmente un corpo fisico, fatto di identità più o meno solide, che la teoria dell’evoluzione biologica viene portata a fare un salto semantico dalle conseguenze pesanti: se infatti l’intera struttura dello stato può essere immaginata come qualcosa di organico, uniforme e interdipendente, allora non sembra azzardato accostare per similitudine l’organismo nazionale con un vero e proprio organismo vivente, attribuendogli le stesse pulsioni, le stesse caratteristiche, gli stessi comportamenti.

All’apice dell’età degli imperi la scienza positivista comincia a raccontare la politica internazionale come una sorta di scontro tra enormi pachidermi nella sterminata savana del mondo (metafora, quella della savana o della giungla, abusata già al tempo e di sapore vagamente coloniale), in cui gli organismi più potenti, gli stati imperiali occidentali, possono, anzi devono, quasi per legge di natura, imporsi sui più deboli.

La deriva imperialista

È lo stesso periodo in cui gli studi internazionali supportano e fomentano la politica imperialista avvallando non solo la possibilità, ma la necessità dello sfruttamento di intere popolazioni fuori dai propri confini. La geopolitica si trasforma divenendo determinista e razzista, i cui studi servono ad accompagnare l’invasione bianca del globo.

Mentre ad esempio l’etnologo e geografo tedesco Friedrich Ratzel pone le basi di studio nella scienza geopolitica, il suo paese è già alle prese con l’applicazione pratica delle teorie della potenza degli stati e i suoi effetti sulla società: «Wir verlangen auch unseren Platz an der Sonne!», ovvero, «anche noi pretendiamo il nostro posto al sole!», dichiara in una seduta del parlamento imperiale del 1897 il cancelliere Bernhard von Bülow (1849-1929) per chiedere l’approvazione di un cospicuo pacchetto di interventi che sarebbe servito a finanziare l’espansione coloniale tedesca.

Quel “noi”, brandito come una lancia identitaria, chiama in causa tutti i tedeschi, evidentemente tutti desiderosi di avere a disposizione un pezzettino di tropico da rivendicare alla civiltà teutonica. Nei fatti però quel pronome personale che farà approvare entusiasticamente l’esborso, sarà un “noi” relegato all’operazione del “dare”, non dell’“avere”: l’intero popolo tedesco pagherà con le proprie tasse l’espansione coloniale dell’impero, che però darà frutti, e miseri, solo per una ristretta fetta di società e contemporaneamente aggraverà il contesto geopolitico mondiale antecedente la Prima guerra mondiale.

In nome di quel posto al sole la Germania guglielmina entrerà in conflitto con la superpotenza coloniale dell’epoca, la Gran Bretagna, e per mantenerlo le armate del secondo Reich si macchieranno di quello che è da poco stato riconosciuto come il primo genocidio del Ventesimo secolo, perpetrato contro gli Herero e i Nama, popolazioni dell’attuale Namibia, allora “Africa occidentale tedesca”.

La “forza degli stati”

È il periodo della storia europea in cui i primi uffici di statistica prendono a misurare la “forza degli stati” attraverso parametri come la produzione di carbone e acciaio, necessari all’industria bellica; in cui non solo si giustificano, ma si incoraggiano spese favolose per la conquista di nuovi territori da strappare ai concorrenti; il periodo in cui i giornali si riempiono di caricature in cui campeggiano le rappresentazioni allegoriche dei paesi trasformati in veri e propri personaggi, dalla Marianne francese all’orso russo passando per lo zio Sam. Uno stato personificato, che come un congiunto, uno di famiglia, va rispettato, seguito, onorato.

Sono gli anni in cui nascono ardite costruzioni semantiche che in italiano ad esempio si condensano in parole come madrepatria, vale a dire, letteralmente e con un pizzico di nonsense, il luogo in cui è nato tuo padre e che contemporaneamente ti è madre. Una figura femminilizzata a cui devi la vita, e che sulla tua vita ha diritto.

Anche a causa della forza di questi racconti milioni di uomini rimangono per anni bloccati in trincee in condizioni disumane sopportando privazioni, bombardamenti, attacchi, gas, aspettando il momento in cui qualcuno avrebbe dato l’ordine di correre incontro a una morte dolorosa. Condizioni che violano il più elementare e forte degli istinti umani, quello di sopravvivenza, per un racconto pubblico che a un occhio moderno appare quantomeno raffazzonato. Un nemico inumano da distruggere per non essere distrutti, la difesa di una supposta civiltà da una supposta barbarie, la semplice coercizione data dal non voler essere considerati dei “traditori della patria”.

Racconti piuttosto posticci di fronte alla prospettiva molto concreta di farsi ammazzare correndo incontro a una mitragliatrice ma che riescono a mantenere, con qualche coraggiosa eccezione, milioni di uomini piantati a morire affogati nel fango, di piombo, di freddo, di caldo, di sete.

Il caso inglese

In questo il caso emblematico della Gran Bretagna ha fatto scuola: a differenza dei sudditi della maggior parte degli stati europei, all’epoca gli inglesi nel 1914 non hanno la leva obbligatoria. Eppure decine di migliaia di ragazzi corrono ad arruolarsi nel corpo di spedizione britannico sul continente, per combattere “gli unni”, dipinti come il nemico della civiltà britannica, e lo fanno anche quando i primi racconti dell’inferno delle trincee arrivano sui giornali inglesi insieme alle immagini dei corpi dilaniati; lo fanno perché è quel che si pretende da loro. Solo all’inizio del 1916 il governo di Londra approva la coscrizione obbligatoria, quando già centinaia di migliaia di ragazzi si sono presentati spontaneamente per l’arruolamento.

Ovviamente sono molti i motivi per cui scegliere di combattere in un conflitto tanto terribile, ma una componente non secondaria è data dalla necessità di difendere la terra madre, la “motherland”, e di dimostrarsi degni di far parte della comunità imperiale inglese. Cioè di essere degni di entrare nel racconto.

Giustificazione scientifica

Di tutto questo la geopolitica diviene strumento, passando dall’essere la scienza dei rapporti tra gli stati e i popoli a essere la giustificazione scientifica della volontà di potenza dei singoli stati. Diviene lettura apprezzata dai regimi che hanno fame di terra e ricchezza, coi richiami alla possibilità di prendersi dei pezzi di terra altrui legittimamente, cioè “naturalmente”, come naturalmente il leone caccia e uccide le sue prede senza per questo essere “colpevole”.

Il paradigma di questo tipo di manipolazione geopolitica è l’evoluzione del concetto di Lebensraum, lo spazio vitale nazista: nella prima metà del Ventesimo secolo l’idea di una nazione forte e popolosa che avesse il diritto, anzi, il dovere di riprendere la corsa all’est a discapito dei propri vicini ha portato non solo alla infame giustificazione politica dell’invasione della Polonia e del Vernichtungskrieg, la guerra di annientamento, condotta dai nazisti a est, ma anche alla sua sostanziale accettazione da parte di una buona fetta della società tedesca dell’epoca, che vedeva come “naturale” il fatto di poter reinsediare su territori ex polacchi dei tedeschi in nome del diritto del più forte.

Questa scelta di racconto ha prodotto nei paesi a vocazione imperiale una serie di proiezioni territoriali che ridisegnavano, senza consultarli, i destini di interi paesi. Dal “giardino di casa” sudamericano degli Usa alla sfera di influenza sovietica dell’Urss, il Ventesimo secolo ha partorito i maggiori agglomerati geopolitici di tutti i tempi. Ma sono soprattutto i regimi fascisti e autoritari ad aver contribuito in misura preponderante alla costruzione di un immaginario in cui al diritto internazionale si potesse sostituire il “diritto naturale” del forte sul debole. Non è un caso che proprio all’apice della parabola imperiale europea mentre i movimenti operai del continente cercano di costruire l’alternativa internazionalista di classe la nazione diventi il punto di arrivo del racconto pubblico autoritario.

I “sogni geopolitici” italiani

(AP Photo)

Praticamente ogni dittatura europea del secolo scorso ha cavalcato l’idea che si potessero rivendicare dei territori in nome della necessità di trovare spazi per l’espansione dello “slancio vitale” della nazione o come rivendicazione di reali o presunti torti subiti: fanno parte di questo racconto le pretese mussoliniane in Africa che portano alla sanguinosa “pacificazione” libica e ai massacri imperiali in Etiopia, ma anche la volontà di stabilire zone di influenza nei Balcani e nel Mediterraneo, che portano alla fallimentare “guerra parallela” fascista.

Nel caso italiano, ma non solo, tutti questi “sogni geopolitici” hanno una triste caratteristica comune: infiammate da una roboante campagna di propaganda per convincere il paese della propria superiorità queste guerre sono tutte accompagnate da brutalità ed eccidi. Un particolare importante, che racconta il rischio dell’utilizzo disinvolto della geopolitica d’accatto: quando il fascismo avvia gli scontri nelle zone dichiarate “diritto naturale” della potenza italica, costruisce un racconto pubblico per cui dalla riuscita o meno di queste imprese dipendono non solo le sorti del ruolo geopolitico voluto dal regime per il paese, ma anche il senso stesso del regime per il paese.

Detta in maniera breve, negli scontri intrapresi per volontà di potenza il fascismo si gioca ogni volta la faccia, e proprio a causa di questo azzardato all-in non può permettersi di essere sconfitto, pena la perdita di credibilità all’interno e all’estero.

E se non ci si può permettere di perdere, allora si può e si deve fare tutto per vincere. Per questo diventano pratica consueta i massacri e le deportazioni di civili libici in campi di concentramento; per questo viene avvallato e diffuso l’uso di gas in Etiopia; per questo gli italiani conducono la guerra anti partigiana nei Balcani a colpi di rastrellamenti ed eccidi. Le estreme conseguenze del racconto di un presunto “ruolo fatale” di un paese in un contesto internazionale sono il sacrificio dei valori fondanti raccontati come d’ostacolo al raggiungimento di un obiettivo “naturale”.

D’altronde, anche il leone che caccia la gazzella sparge il sangue della sua vittima. È come se, facendo entrare con Darwin la “legge della savana” nei rapporti politici, questa intossicasse i gangli delle società, abbassandone bestialmente gli standard accettabili di civiltà.

Investimento identitario

Per quanto brutale però il sistema funziona: praticamente tutti i regimi di destra del Ventesimo secolo hanno avuto in agenda una “questione geopolitica” da risolvere per poter fomentare lo spirito nazionale nei momenti di crisi. Mussolini in questo è un apripista, ma vanta un seguito concreto e agguerrito.

La Spagna franchista mantiene per lungo tempo le proprie attenzioni puntate su Marocco e Sahara occidentale, terre su cui si proiettava la volontà di potenza, almeno raccontata, spagnola. Allo stesso modo la dittatura portoghese finisce per dissanguare sé stessa e l’intero paese in un’anacronistica guerra contro i movimenti di liberazione dei suoi possedimenti africani.

L’importanza del racconto pubblico riguardo il mantenimento di quegli ultimi pezzi di impero si evince dalle cartine utilizzate nelle scuole portoghesi degli anni Trenta che raffiguravano sovrapposte le colonie portoghesi alla mappa d’Europa, mostrando che il loro insieme copriva agevolmente l’estensione dell’intero continente. Lo slogan che accompagnava le immagini, “Portugal não é um País pequeno”, il Portogallo non è un piccolo paese, è un’eloquente sintesi dell’investimento identitario che accompagnava il possesso delle colonie.

Il fascismo portoghese paga il fallimento di questa politica di potenza con la propria fine, quando nel 1974 la cosiddetta Rivoluzione dei garofani pone fine al salazarismo e contemporaneamente alle pretese coloniali.

Raramente i regimi che giocano la carta del destino geopolitico sopravvivono alla sua smentita. Quando, con la sconfitta nella guerra delle Falkland-Malvinas, i militari argentini perdono la scommessa di strappare i territori contesi al lontano nemico inglese, l’intera dittatura viene travolta dal fallimento, aprendo la strada alla democrazia.

Strumento di conservazione

La distorsione dello studio geopolitico può anche essere non solo uno strumento di espansione, ma anche di conservazione. In Ungheria il regime autoritario dell’ammiraglio Horthy negli anni Venti e Trenta continua a fomentare il revanchismo magiaro nei confronti del trattato di Trianon che aveva sancito, alla fine della Grande guerra, la perdita dei due terzi dei territori del vecchio regno d’Ungheria.

Il principio di autodeterminazione dei popoli aveva privato il regno delle terre a maggioranza non ungherese, e questa mutilazione territoriale è la linfa di cui si nutre il regime che vuole vendicare i “torti subiti” dagli ungheresi. Questo alimenta la costituzione di uno spazio geopolitico di tensione tra lo stato danubiano e i suoi nuovi vicini che sembra rendere “necessario” il regime autoritario e la sua politica, che finirà per consegnare l’Ungheria all’alleanza con Hitler.

Il racconto oggi

Benché dopo il 1945 la nascita dell’Onu abbia portato al tentativo di regolare le controversie tra stati attraverso il diritto è evidente che ancora troppo spesso è la via della forza, della “savana”, quella preferita. L’efficacia della chiamata alle armi per difendere i cosiddetti interessi nazionali è ancora così radicata negli schemi di racconto pubblico da costituire un ottimo propellente per regimi in cerca di legittimazione o in rafforzamento o, addirittura, per democrazie in crisi di consenso.

Il mito della grande Ungheria ad esempio è ancora così utile alla costruzione dell’immaginario magiaro che chiunque si rechi a Budapest può notare che sulla facciata del parlamento sventola, accanto al vessillo rosso-bianco-verde, una bandiera giallo-azzurra con una stella e una mezzaluna: è la bandiera della Transilvania, regione oggi rumena a forte presenza ungherese, più volte messa al centro di controversie internazionali da parte del governo di Budapest e simbolo di quella “volontà di riscatto” cavalcata dai populisti.

Il peso odierno di questa strumentalizzazione che fa della geopolitica una sorta di foglia di fico scientifica per coprire le più varie ambizioni è crudamente esemplificata dal modo in cui in Russia oggi si racconta la guerra in Ucraina, derubricata dai media di Mosca a “operazione speciale” per ricondurre nell’alveo del mondo russo un pezzo di vecchio impero.

Ma non è necessario fare molta strada per trovare questo uso disinvolto di argomenti quantomeno posticci: nel 2018 un esponente di estrema destra in una tribuna politica ha affermato che per risolvere il problema immigrazione all’Italia sarebbe bastato “riprendersi” un pezzo di Libia per gestire in loco la questione: a chi gli faceva notare che la Libia, per quanto malandata, era ancora uno stato sovrano, il politico ha risposto sostenendo l’idea che alcuni paesi «non si sanno gestire da soli» e parlando inoltre di una «legittima area di interesse italiana» nella zona.

La forza di queste interpretazioni, ancora oggi, non conosce contraddizione interna, anzi, sancisce l’eccezionalità del gruppo di potere che le adotta: “Noi possiamo, gli altri no”. Per questo non è dirimente la contraddizione intrinseca del regime cinese nel rivendicare per questioni storiche Taiwan mantenendo al contempo uno stretto controllo sul Tibet.

Anche nel mondo delle democrazie occidentali abbiamo casi peculiari: le richieste spagnole di riavere indietro Gibilterra dal Regno Unito per ragioni di continuità territoriale non mettono in imbarazzo la volontà politica spagnola di mantenere il possesso di Ceuta e Melilla in Africa.

Allo stesso modo “qui da noi” non si nota quanto strida veder gridare alla sostituzione etnica oggi compagini politiche eredi di una tradizione che ha dato impulso e ancor oggi storicamente difende la colonizzazione italiana della Libia o invocare blocchi navali all’immigrazione dopo aver esportato milioni di braccia per un secolo e mezzo in tutto il mondo.

Verso una geoetica

Concludendo, la geopolitica non è di per sé una scienza che abbia un colore politico: è, come molte pratiche umane, uno strumento neutro. È quando la si utilizza per costruire giudizi ideali sul passato o per avvalorare pretese politiche sul futuro che essa diviene alimento di un racconto tossico.

C’è la possibilità di neutralizzare questo pericolo prendendo qualche accorgimento: fra tutti, smettere di pensare e valutare gli stati come leviatani dotati di una volontà unica e di una propria fisicità. Basterebbe raccontarli per quel che sono, vale a dire insiemi di donne e uomini alle prese con lo spazio e con il tempo e che nel loro vivere hanno spesso interessi, amori, desideri, e in cui però solo ad alcuni è dato di decidere “per tutti”.

Basterebbe questa presa di coscienza per ripulire la geopolitica dalle incrostazioni ideologiche dando una lettura meno determinista dei rapporti tra gli stati e, al contempo, ridimensionando il peso stesso dello stato nella vita dei singoli. Si passerebbe dalla geopolitica alla geoetica: dai rapporti tra stati e territori al rapporto responsabile tra l’insieme degli individui e il pianeta nel suo insieme.

Ma forse qui si scivola nell’utopia.

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