L’ultima volta che ho mangiato in ristorante ho chiesto e consumato con piacere uno dei miei piatti preferiti: risotto con ananas, latte di cocco e curry. Mi sono alzato da tavola appagato, senza paura di quell’apparentemente strano abbinamento e di cosa sarebbe successo alla digestione. È andato tutto bene. 
Riso, ananas, latte di cocco e curry: cibo etnico, ma cosa intendiamo quando usiamo questa espressione? Proprio perché studio la storia dell’alimentazione, sono consapevole di non sapere rispondere in modo esauriente.

Qualche indizio ce l’ho, ma non abbastanza per reagire con certezza alla domanda. Sicuro, le definizioni ci sono, ma accontentano poco perché poco spiegano.

Cibo etnico è l’insieme degli alimenti e delle tecniche di cottura/preparazione (perché c’è pure il crudo, altrimenti escludiamo i consumatori di sushi) proprie del patrimonio culturale di un popolo, o quantomeno di un gruppo ben definibile. Le portate greche, per esempio, sono etniche per gli italiani, e viceversa. Se parliamo invece di cibi esotici, di solito pensiamo a qualcosa di leggermente differente: forestieri, ma pure legati a un ambiente tropicale, come quello in cui ha origine l’ananas. 

Pigna reale

Chi ama i romanzi d’avventura potrebbe davvero gustarsi il racconto dei viaggi del mercante fiorentino Francesco Carletti (1573 o 1574-1636). Partito con il padre l’8 gennaio 1594 alla volta di Capo Verde, Carletti rientrò a Firenze appena nel 1606, dopo aver toccato, oltre alla destinazione iniziale, le Indie occidentali (Messico, Perù), quelle orientali (Cina, Goa), il Giappone, l’Olanda e la Francia.

Di queste navigazioni e di questi soggiorni, Carletti ci ha lasciato memoria nei suoi Ragionamenti di F.C. fiorentino sopra le cose da lui vedute ne’ suoi viaggi, sì dell’Indie occidentali, e orientali come d’altri paesi, pubblicati postumi nel 1701 ma già ben noti parecchi anni prima, grazie a una notevole circolazione manoscritta. 

Come ogni viaggiatore che si rispetti, Carletti annotò nei suoi diari una marea di informazioni relative al cibo, in particolare a quello buono da commerciare. Si trattava di un mercante, pure piuttosto abile, anche se le ricchezze accumulate gli finirono confiscate dai corsari e con quelle navigazioni non fece fortuna.

Nell’accurato indice dei Ragionamenti sono più di 150 le voci legate, in qualche modo, a cose commestibili, più o meno apprezzate. Una di queste voci è dedicata all’ananas, che Carletti trovò nella Malacca, arcipelago malese, ben lontano dalle terre nelle quali originariamente cresceva.

Il mercante viaggiatore ne era conscio, e ci teneva a farlo sapere, appuntando non appena nominatolo: si trattava del frutto che nelle Indie occidentali gli spagnoli chiamavano «pignas», come del resto succede ancora oggi (piña).

Per descrivere qualcosa di nuovo serve l’analogia, e Carletti sottolineò come l’ananas assomigliasse proprio alla pigna e nascesse da una pianta simile al carciofo. Proseguiva descrivendo il modo giusto per curarlo, tagliarlo e mangiarlo, con «un poco di sale». L’accortezza della preparazione e del condimento erano indispensabili, chiosava, per evitare cattive sorprese («febbri maligne e flussi di sangue») originate da un succo corrosivo, che se non pulito per tempo era capace di arrugginire i coltelli. Non troppo differentemente dall’acqua piovana, verrebbe da puntualizzare.

E pensare che oggi è diffusa l’abitudine di chiudere lauti banchetti proprio con l’ananas, ricco di un tempo di impensabili virtù digestive, pure senza sale. 
A quel che ne sappiamo, il primo a parlarci di ananas fu Cristoforo Colombo nel 1493, descrivendo il frutto come una pigna tropicale, diventata poi reale perché il suo prezzo lo rendeva accessibile solo ai re. Viaggiò verso oriente, l’ananas, trovando inizialmente tutto sommato poca fortuna in Europa e molto di più in alcuni paesi asiatici, come Malacca, per chiudere (quasi) il giro del mondo, arrivare fino alle Hawaii e, qualche secolo dopo, dare il nome alla pizza più odiata dagli italiani, quella hawaiana appunto, con prosciutto e ananas sciroppato.

Strategie belliche

L’associazione tra alimenti etnici e paura per la buona salute non è certo propria di Carletti e del suo tempo. Ci ricordiamo della “guerra ai kebab” di qualche anno fa, condotta da vari esponenti leghisti con l’arma dei controlli sanitari nel nome della salvaguardia del mangiare locale e della preservazione dell’igiene? Più semplicemente, chi tra noi non ha qualche amico almeno che guarda con sospetto al pollo del ristorante cinese, o al pesce crudo di quello giapponese? Sono cibi e preparazioni che possono andare bene per altre culture della tavola, ci sentiamo dire. 

Troviamo preoccupazioni simili anche in un testo del medico italiano Angelo Pugliese, che nel 1915 dedicò riflessioni approfondite a L’alimentazione del nostro soldato in guerra. È questo il titolo di un opuscolo breve ma condito, venti pagine ricche di dati, riflessioni, cibo per la pancia e per la mente, destinate a suggerire una buona logistica per il primo grande conflitto mondiale.

Leggiamo quanto scrive della carne. In tempo di guerra all’alpino se ne assegnavano 425 grammi, 375 agli altri militi. Quantità eccessiva, secondo il dottor Pugliese, che difendeva la propria tesi partendo da un fattore economico: dosi simili, contando un milione di soldati (numeri da far accapponare la pelle), richiedevano la macellazione giornaliera di 3mila capi. Erano troppi, tanto che si sacrificavano le mucche da latte e i bambini piangevano.

Che la carne facesse bene non si poteva mettere in dubbio, ma la quantità era importante, e qui Carletti proponeva il suo corretto metodo di calcolo. Bisognava fuggire la tentazione di paragonare il vitto italiano con quello di combattenti francesi e inglesi, che ne mangiavano di più, portandosi però dietro costumi del tempo di pace, «gusti e abitudini che non sono per lo più arbitrari, ma che hanno quasi sempre profonde radici in fattori d’ordine etnico».

Proprio così, «fattori d’ordine etnico», a sottolineare anche qui il timore che usanze forestiere fossero un rischio per la salute degli arruolati.

In Italia si mangiava meno carne, la dieta era più varia, le risorse più differenziate: evviva il mangiare mediterraneo, che nessuno al tempo chiamava così.

Pugliese proponeva di levare cinquanta grammi al giorno, perché c’era da tenere bene presente il fattore psicologico: il soldato era convinto che la carne gli garantisse forza, quindi guai a esagerare nel limitarla. La cosa, commentava il medico, non era poi così fondata, ma la psicologia è una cosa seria e le bistecche non solo piacevano, ma davano pure fiducia.

Una riduzione simile avrebbe comportato un risparmio di cinquecento quintali al giorno, consentendo ai bambini di recuperare il proprio latte; i militari si sarebbero accontentati di più formaggio. Tutto bene, ma, si sa, le strategie belliche devono fare i conti con contingenza e disponibilità e molte indicazioni, alimentari e non, rimasero sulla carta dei dotti e non raggiunsero mai le trincee. 

Viva i piatti meticci

La società in cui viviamo, pure a tavola, è sempre più multiculturale e la mescolanza delle abitudini alimentari è un processo lungo secoli, capace di attraversare non solo il tempo ma anche lo spazio, e allo stesso tempo motivo di svariati timori.

La diffidenza verso i nuovi cibi ha un nome, neofobia alimentare, ne soffrono più di frequente i bambini ma tra gli adulti si accompagna a un più generalizzato atteggiamento di chiusura verso le culture altre. C’è un motivo per cui non dovremmo avere paura? No, ce ne sono di più.

Cominciamo: la varietà degli ingredienti e dei modi di abbinarli di norma aumenta la qualità nutrizionale e dunque fa bene. Proseguiamo: le ricerche raccontano che il consumo di piatti meticci favorisce la convivialità, poiché è grazie al consiglio di parenti, amiche e amici che di norma ci si accosta, in compagnia, alle mense meno note. Concludiamo: metto il punto, perché sta suonando il timer del forno e la pizza hawaiana di stasera è quasi pronta. Manca solo l’ananas sciroppato, il prosciutto già c’è. 


 

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