In edicola, fra pacchetti di figurine e quotidiani e copertine lucide di riviste di moda, sono esposti i libri rosa. Ho adocchiato spesso qualche copia pure in quei supermercati in cui c’è un angolo dedicato alla vendita di volumi rilegati con frontespizi su cui il nome dell’autore è in genere scritto a caratteri più grossi del titolo. Li ho visti nelle stazioni, in quei bar-tabacchi-rivendita giornali, e qualche volta nelle case delle amiche delle mie nonne.

Quando inizio a notarli sono una bambina, ho nove, dieci anni e questi libri tascabili con le copertine profilate di rosa li vorrei leggere tutti. Un po’ perché il rosa è un colore che mi piace anche se fingo di no (non vorrei sembrare una di quelle bambine smorfiose che per la verità non ho mai conosciuto, ma di cui mi si dice che indulgono alla passione per il rosa e gli atteggiamenti frivoli).

Un po’ perché i titoli di questi libri mi sembrano magici: certo, ho nove anni e gusti particolarmente kitsch, ma non capita tutti i giorni di posare gli occhi sulle promesse di felicità di Seducenti contrasti, o di Baci e battibecchi, o del più prosaico ma non meno curioso Tutta colpa della zia. Che mai sarà accaduto per colpa di questa fantomatica zia?

Certo qualcosa di interessante, abbastanza da far scivolare una donna bionda in abito da sera lavanda, con l’aria smarrita e la presa decisa sulla camicia inamidata di un tipo muscoloso in smoking, sopra il suddetto petto nerboruto. Lui la guarda con un’intensità che potrebbe essere anche dispetto, ma la mia versione bambina vorrebbe saperne di più.

Come pure quella adulta, che continua ad adocchiare le copertine e a meravigliarsi di quanto, e insieme quanto poco, siano cambiate nel corso degli anni. Ci sono pirati con bende sull’occhio e camicie gonfie di vento sotto cui le membra corsare si avvinghiano a flessuosi corpi di signorine in evidente distress; ci sono falpalà svolazzanti e cappelli a cilindro e carrozze che collocano le storie in un immaginario passato di sogno, in luoghi impossibili da identificare ma genericamente sovrapponibili a un’immaginaria Inghilterra di brughiere e vicariati.

Ma ci sono pure metropoli statunitensi di grattacieli e uffici, sfondi di vetrocemento su cui si incendia l’amore fra timide segretarie e segretamente passionali e algidi uomini d’affari cui si scioglie istantaneamente il cuore di ghiaccio.

Romance

La mia attrazione per questi libri è nata quando avevo nove anni e mi si diceva che non erano letture adatte a una bambina, e difatti non lo erano; non erano adatte nemmeno quando di anni ne avevo venti e studiavo in un’università prestigiosa, e neppure a trenta, quando il mio mestiere era diventato scrivere, ma scrivere di cose serie, senza vicari e senza pirati: è per questo che li ho sempre voluti leggere. Per questo, e anche perché sono frivola e non me ne vergogno più.

Certo, oggi è molto più facile, leggere questa narrativa svenevole, talvolta scollacciata, senza troppi imbarazzi. Oggi i romanzi rosa non si chiamano più harmony, sineddoche imprecisa che pure rendeva conto dell’importanza editoriale della storica collana Mondadori, poi passata ad Harper Collins, nella diffusione di queste storie rispettabilmente osé per signore.

Oggi il genere si chiama romance e registra vendite da capogiro, grazie in gran parte a TikTok e al passaparola di recensioni che invogliano lettrici anche giovanissime ad avvicinarsi a romanzi che contaminano le trame sentimentali con elementi pescati dal fantasy o dal melodramma.

O anche da un filone più spigliato e brillante di ispirazione austeniana, con la geniale mediazione di Helen Fielding che negli anni Novanta, con Il diario di Bridget Jones seppe riprendere e trasporre nel presente l’ambizione di Orgoglio e pregiudizio: raccontare il lato segreto e sgradevole di trame matrimoniali avvitate attorno a malintesi e fallimenti economici e sociali, conservando un gusto un po’ sardonico per il discorso amoroso.

Le autrici, oggi, continuano nascondersi dietro pseudonimi talvolta un po’ goffi, ma che importa? Sono parte del fascino del genere, e nell’era della sovraesposizione il mistero consolida la fama di scrittrici (qualche volta, mi piacerebbe pensare, anche scrittori, chissà) il cui nom de plume è più noto del volto. Proprio a qualche giorno fa risale il disvelamento in diretta televisiva dell’identità di Erin Doom, la cui firma evoca apocalissi gaeliche ma che in realtà si chiama semplicemente Matilde; con il suo Fabbricante di lacrime ha venduto più di chiunque altro in Italia nel 2022.

Consolazione

Perché quello del romance è un mercato che fiorisce, scandalizzando chi sostiene che si tratti di un fenomeno indegno e inveisce contro l’idea che chi compra romanzi rosa possa fregiarsi del titolo di lettrice o – più raramente, secondo le statistiche – lettore.

Ma che senso ha insistere su un’ipotetica opposizione concorrenziale fra questa narrativa popolare e quella considerata “alta”, presentabile? Qualche autrice di romance scrive piuttosto bene, qualcun’altra è più ruspante, sta di fatto che il genere risponde a una domanda ben precisa: secondo Ella Braidwood, che per il Guardian ha scritto un bell’articolo sull’ascesa irresistibile di questi romanzi, il loro successo ha a che fare con un bisogno diffuso di rassicurazione.

Il mondo cade a pezzi, l’idea di un futuro di progresso finisce in briciole, ci sentiamo stringere dall’angoscia per la crisi climatica e per scenari politici sempre più foschi, e allora ci rifugiamo nelle storie d’amore: chi può biasimarci?

Il romance ci consola, con le sue trame convenzionali; sospiriamo davanti a un primo bacio, o alla storia di due che prima si detestano e poi si innamorano, a un amore che sfida la malattia o comunque appartiene a una gamma splendidamente prevedibile di tropi ben visibili, come dietro la trama di un tappeto liso, attraverso la fattura spesso casereccia di questi libri (in molti casi nati su piattaforme di condivisione come Wattpad, che magari offre poche garanzie di qualità ma compensa l’aspetto ruspante della scrittura con la salvaguardia di un’appassionata spontaneità). Insomma, il romance è consolazione.

Liberazione

Ma mi piace pensare che ci sia anche dell’altro, oltre a questa ragione tutto sommato reazionaria, dietro il suo successo. Che sia in atto una liberazione: la liberazione delle lettrici dallo stereotipo che giudica sconveniente il sollazzo di pagine che fanno sognare.

La liberazione dall’idea che leggere debba essere un’esperienza seriosa, edificante, una sorta di medicina virtuosa da assumere per sentirsi migliori – migliori di chi, poi? Di chi non legge, o di chi legge romanzacci. Ma perché mai dovremmo intestardirci su un’immagine così punitiva, così puritana, della lettura e pure della scrittura?

Nel concetto stesso di guilty pleasure, a cui sono associate le frivolezze tutte e in particolare quelle commesse in campo artistico, è implicito un giudizio, un moralismo, che non fa bene a nessuno: l’ha scritto molto bene qualche giorno fa su Il Libraio Alice Basso, giallista che solo dopo aver pubblicato una decina di romanzi si è resa conto di aver troppo a lungo ridimensionato le sottotrame amorose, a cui pure teneva, per impedire a chi l’avrebbe letta di etichettarla come scrittrice rosa.

Da quando ha capito che si stava censurando, si sente molto più libera e si diverte pure di più; e ha ragione. Del resto, la letteratura libertina che ha permesso alle idee illuminate di circolare per un’Europa di censori e baciapile fino all’incendio rivoluzionario dell’Illuminismo, si lasciava traghettare anche dai romanzi osé.

C’è un bellissimo libro di Cathleen Schine, Le disavventure di Margaret, pubblicato in Italia da Adelphi, che racconta proprio questa libertà settecentesca, riscoperta da una studiosa di fine Novecento che così mette in discussione la seriosità della sua vita. È un romanzo coltissimo, che non teme di sembrare sciocco e così gioca con gli stilemi del romanzo storico, con i cliché del romanzo rosa, con le svenevolezze che chiameremmo da romance: il risultato è irresistibile.
 

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