Quando Lance Armstrong disse tutti quei sì a Oprah Winfrey - sì mi sono sempre dopato, sì ho preso l’Epo, sì ho fatto trasfusioni, sì ho assunto testosterone e ormone della crescita - e chiuse con un unico no, alla domanda se si potessero vincere sette Tour de France senza pratiche illecite, Sepp Kuss era altrove. Aveva diciannove anni, studiava letteratura inglese al college, aveva lasciato l’hockey su ghiaccio per la mountain bike e beveva birre con i suoi amici a Durango, Colorado. Nessuno poteva immaginare che dieci anni più tardi sarebbe diventato l’uomo nuovo del ciclismo americano, quello che può rimettere in connessione il suo grande paese con uno sport straniero, poco conosciuto e che da dieci anni negli Usa collegano a un’idea fastidiosa di tradimento e disonore.

Quello che amano gli americani dello sport: il dramma, la velocità, la forza, l’abilità e soprattutto le statistiche. La parola che Sepp Kuss, l’ex ragazzo di Durango che domenica ha vinto la Vuelta di Spagna, ha ripetuto più spesso nelle ultime settimane a proposito del suo insperato successo è hype. Un misto di aspettativa e di montatura, qualcosa che fa rumore e mette un’ansia positiva. Dopo la letteratura, Kuss si è laureato in pubblicità e l’hype è materia sua.

Alla Vuelta l’aspettativa e il rumore erano generati da una storia di facile presa, quella del gregario che per anni si sacrifica per i suoi capitani e che all’improvviso si ritrova in testa alla corsa, una riedizione di Cenerentola che funziona sempre. Di colpo nessuno ha più sperato che vincesse il più forte, tutti volevano l’happy end alla Frank Capra.

Anche il vincitore degli ultimi due Tour, il danese Vingegaard, e il trionfatore del Giro, lo sloveno Roglic, si sono trovati invischiati in una faccenda più grande di loro e non hanno potuto fare altro, hanno lasciato che l’ex biker di Durango finisse sul gradino più alto del podio.

La Jumbo-Visma diventa la prima squadra di sempre ad aver vinto tutti e tre i grandi Giri dell’anno. E Kuss è il quarto americano a trionfare in una corsa di tre settimane dopo i tre Tour di Greg LeMond e il Giro di Andrew Hampsten (anni Ottanta, preistoria), la Vuelta di Chris Horner (2013). È anche il secondo uomo della storia a vincere un grande Giro avendoli corsi tutti e tre (il primo era stato Gastone Nencini nel 1957).

Eccole le statistiche. Quando la moglie di Kuss lo ha baciato dopo l’ultimo traguardo, i microfoni ci hanno fatto sentire le loro parole in diretta. «Puoi rifarlo vero amore?». «Mai nella vita», le ha risposto lui con il sorriso che è il suo marchio di fabbrica. Se non ti racconti balle, è più facile capire quando sei felice.

Lance

Sottoposto a domande sul doping, destino a cui non sfugge nessuno dei vincitori nel ciclismo, Kuss ha raccontato la sua idea di sport. «Imbrogliare o fare uso di sostanze vietate è semplicemente fuori discussione. Se lo fai vuol dire che non sei abbastanza bravo, che hai paura di perdere. Ma perdere fa parte dello sport, se non accetti che qualcuno possa batterti che senso ha gareggiare?».

Erano le parole che tutti i suoi connazionali volevano sentire, per sentirsi finalmente fuori dall’Incubo Americano in cui Lance Armstrong li aveva gettati quando aveva ammesso che non c’era niente di vero. «È stata una grande bugia ripetuta molte volte», confessò disarmato alla regina dei talk show. «Avevo in testa una storia perfetta, battere la malattia, vincere sette Tour, avere un matrimonio felice, ma era tutto finto».

 L’uomo che aveva insegnato la speranza agli ammalati di cancro (le riviste scientifiche parlarono di «effetto Lance Armstrong» nella cura del tumore ai testicoli, la sua fondazione ha davvero aiutato milioni di pazienti nel mondo) raccontò a ventotto milioni di telespettatori come aveva ingannato tutti. Dei suoi sette Tour non rimane traccia nell’albo d’oro, come se non fosse mai esistito. Agli americani piace il dramma, ma le bugie non sono tollerate.

Armstrong non era solo. Nelle vene dei campioni americani venuti su nell’era di Lance scorreva sangue alterato. Ci aiutano ancora le statistiche. Dal 2001 al 2011 Levi Leipheimer, Floyd Landis, Tyler Hamilton, Tom Danielson e Christian Vande Velde sono finiti tra i primi 10 nei grandi Giri 18 volte (10 al Tour de France). Aggiungiamo le 10 top ten di Armstrong (7 Tour vinti più un terzo posto, un quarto posto alla Vuelta e un nono al Giro) e arriviamo a 28: di queste 19 sono state revocate per positività o confessioni di doping. Una generazione cancellata con disonore.

Da lì in avanti il ciclismo è stato marginale per i 332 milioni di americani. Dal 2011, i corridori Usa sono arrivati nella top 10 dei grandi Giri solo 6 volte: Tejay Van Garderen due volte quinto al Tour, Andrew Talansky quinto e settimo alla Vuelta e decimo al Tour nel 2013; nello stesso anno Chris Horner, nato a Okinawa da genitori che lavoravano nella US Navy, ha vinto la Vuelta pochi giorni prima di compiere 42 anni. Ma il 2013 fu soprattutto l’anno di Lance da Oprah, e di tutti quei sì. Il Sogno Americano era diventato Incubo.

Un nuovo Sepp Kuss?

Adesso anche i nuovi americani hanno una favola a lieto fine da cui prendere ispirazione. Di Durango come Kuss è il talentuoso Quinn Simmons, 22 anni: l’anno scorso è stato il più giovane del Tour. Brandon McNulty ne ha 25 ed è di Phoenix, Arizona: gregario di Pogacar alla UAE, quest’anno ha vinto la tappa di Bergamo al Giro. Matteo Jorgenson, 24 anni, californiano, correrà le prossime tre stagioni con la Jumbo di Kuss.

L’Oneida Neilson Powless è stato il primo nativo americano a correre il Tour, e nel 2022 ha mancato la maglia gialla per appena 13 secondi alla quinta tappa. La prossima star è Magnus Sheffield, 21 anni: cresciuto sul Lago Ontario, all’estremo nord del paese, quest’anno ha vinto una classica del nord, la Freccia del Brabante. Tutti vivono in Europa, è uno dei sacrifici necessari per poter fare i corridori professionisti.

Tutti sperano un giorno di far scoprire il ciclismo quello vero all’America. Sepp Kuss una bugia l’ha sempre detta, ma a fin di bene. «Non ho le qualità per vincere un grande Giro, sono nato per aiutare gli altri». Se ci fosse ancora Frank Capra, Netflix gli chiederebbe di raccontare la sua storia, da Durango al mondo.

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