Vorrei raccogliere il ragionato appello di Mario Giro, pubblicato il 5 aprile, a non cedere – almeno noi, le opinioni pubbliche europee  – all’escalation verbale che sale ogni giorno, insieme con l’intolleranza a qualunque, pur angosciato, tentativo di avanzare qualche distinguo. Ieri ne è stata vittima assurda la distinzione sacrosanta fra la Russia e Vladimir Putin, fra i cittadini e l’autocrate – fra la cultura russa e il governo di Mosca.

Tutti abbiamo sentito parlare di Olga Smirnova, prima ballerina del Bolshoi, che si è pubblicamente pronunciata contro la guerra all’Ucraina prima di lasciare la patria. Era a Napoli in questi giorni, dove, con i primi ballerini di alcuni dei teatri più prestigiosi del mondo, e fra loro Anastasia Gurskaya, prima ballerina dell’Opera di Kiev fuggita dal suo paese a causa della guerra, si è esibita al teatro San Carlo nel gala Stand with Ukraine – Ballet for Peace, ideato da Alessio Carbone, primo ballerino dell’Opéra di Parigi.

L’iniziativa è stata duramente contestata dal console generale d'Ucraina Maksym Kovalenko, che ha invitato gli artisti ucraini a manifestare, e poi da un gruppo di cittadini ucraini, che ha inscenato una protesta sonora fuori dal teatro – piegando l’inno nazionale ucraino a esprimere una tale ostilità contro la musica e i pas de deux di russi e ucraini, da stravolgerlo in un grido stonato, stridente.

Ascoltate per credere, si trova in rete: quell’inno stravolto stringe il cuore tanto dolorosamente quanto allarga il respiro quell’incredibile composizione d’anime e corpi vivi, quella grazia che plana oltre le leggi di gravità e di inerzia, quel volo umano che si alza sul fango e l’orrore della storia – e dice «No. L’uomo è più signorile della morte, troppo signorile per lei» (Thomas Mann).

Lo dice nella lingua di Chopin, di Ciajkovskij, di Ravel, che si diffonde sopra le nazioni. Voi allora mi chiederete, puntando il dito verso Putin, “se questo è un uomo”: ma la risposta la sapete bene. Muterà lui il senso di questa parola, se noi non la terremo alta sopra il sangue e il fango, che non la sporchi così.

Per questo stringe il cuore quell’inno stravolto, stonato. Lo stringe di pietà e di solidarietà, certo: ma anche di sgomento. Perché è un grido contro la sola cosa giusta che lo spirito possa e debba fare: salvarci dal cinismo, anche da quella sua forma ignara, ma incipiente che è – rubo le parole a Mario Giro – credere che «il conflitto armato sia uno strumento come un altro per difendere le ragioni» – la ragione.

Non lo è: perché «porta molto oltre la volontà di chi lo fa». Vito Mancuso si è chiesto sulla Stampa se abbia fatto bene a rispondere di no alla studentessa che gli aveva chiesto se secondo lui la pace sarà mai raggiungibile in terra. No, Vito: credo di no. Perché è «nella mente degli uomini che le difese della pace debbono essere costruite». Ed è la tremenda fusione dell’inno e della forza che confonde l’ideale con l’ideologia, e la chiama “realtà”.

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