Mi sono innamorato delle coreografie di Anne Teresa De Kersmaeker guardandola camminare. Lei e chi danza con lei usa il palco soprattutto per fare cose semplicissime: camminare in cerchio, gesticolare, correre al ritmo di musica meravigliosa. Il suo nuovo spettacolo, Mystery Sonatas / For Rosas, per sette danzatori, è uno dei momenti più importanti di questa edizione del Festival dei due mondi di Spoleto. La musica è di Heinrich Ignaz Franz Biber, che nelle sue sonate del rosario esalta il violino barocco usando la “scordatura”.

Me lo spiega De Kersmaeker in video dal Belgio: «Il violino è accordato in un altro modo. Produce effetti molto emotivi. È un effetto complesso da gestire, specie all’aperto: i violini barocchi sono molto sensibili al caldo e all’umidità. Ma la musica è bellissima e molto espressiva. La danza, seguendola, crea disegni geometrici: circoli, spirali, pentagrammi».

Camminare e danzare

Il teatrodanza può essere un genere difficile per i profani come me, ma Anne Teresa De Kersmaeker ha la capacità di rivelarci i gesti più normali. Ho organizzato l’incontro video proprio per chiederle di quel modo di camminare dinoccolato e serio, poetico e marziale insieme.

«Uso sempre il principio My walking is my dancing», mi spiega. «Camminare è un movimento umano fondamentale. Posso camminare verso di te, o allontanarmi, posso andare piano o veloce. Ed è fatto di spostamenti del peso. Organizza il mio spazio e il mio tempo. Il camminare è verticalità. L’orizzontalità è associata allo stare sdraiati, al sonno, alla morte. Camminare è uno dei movimenti più comuni che facciamo ogni giorno. È il punto di partenza di tutto».

È anche fondamentale nelle danze popolari: nel flamenco, mi fa notare, la parte superiore del corpo fa la melodia con i gesti, mentre la parte inferiore, battendo il ritmo sul pavimento, organizza il tempo.

Ho sempre pensato che la sua insistenza sui movimenti semplici nascondesse una filosofia precisa, e nella conversazione De Kersmaeker me la mette davanti parlando concentrata ma con abbandono, una combinazione molto belga che trovo anche nella moda (Maison Margiela), o nel modo di giocare a calcio di Kevin De Bruyne.

«Ho sempre sviluppato il movimento partendo dal mio corpo. Quando chiedi a dei bambini di danzare cosa fanno? Le giravolte, i salti, oscillano le braccia. La mia prima coreografia, Fase, four movements to the music of Steve Reich (1982), indagava queste cose. Parlava dei movimenti base che gli esseri umani compiono per darsi energia».

Linguaggi

Questo suo modo di riportare la danza a dei movimenti fondamentali mi pare nasca da un’insoddisfazione nei confronti di certe affettazioni del teatro danza. Alla ricerca di movimenti più naturali. «Fin dall’inizio ho cercato di sviluppare un mio linguaggio personale, un vocabolario, una grammatica, e delle strategie per affrontare la relazione tra danza e musica».

De Kersmaeker ha studiato il flauto. «La musica mi ha insegnato a organizzare il tempo. Il tempo e lo spazio per il movimento umano. Ho lavorato con la musica di compositori di ere varie. C’è una sola eccezione: ho trascurato il periodo romantico. Ho una preferenza particolare per Bach. Ho avuto la grande fortuna di lavorare con musicisti eccezionali. Nel nuovo spettacolo ho collaborato con la violinista Amandine Beyer».

Il suo lavoro si accompagna perfettamente sia a Bach sia al minimalismo americano di Steve Reich. È musica organizzata, fatta di studi e variazioni. Sembrerebbe ossessiva e invece è solo rigorosa. De Kersmaeker parte spesso dagli spartiti, assistita da musicisti. Ma non solo: ha anche lavorato con la coreografa spagnola Salva Sanchis su A Love Supreme (2005/2017), dall’omonimo capolavoro di John Coltrane.

«Lì non c’è davvero uno spartito. Parte della coreografia è scritta in grande dettaglio e parte è improvvisata. I quattro danzatori sono collegati ai quattro musicisti. Uno danza la batteria di Elvin Jones, uno il piano di McCoy Tyner, uno il contrabbasso di Jimmy Garrison e uno il sax di Coltrane». Nel suo mondo c’è un rapporto profondo con la musica. «A Brussels, lavoro in un posto dove ci sono sia musicisti che danzatori. Ospita Ictus, un ensemble di musica contemporanea, e la mia compagnia di danza, Rosas, oltre alla scuola Parts. Tutto nello stesso sito. C’è un’interazione costante tra danza e musica contemporanea. Dà grande ispirazione».

Come si vola

La sua ormai vasta opera comincia con due spettacoli fondamentali: il già citato Fase e poi Rosas Danst Rosas. Nel primo danzano (camminano, oscillano) due donne facendo microvariazioni ispirati dalla musica cadenzata e insieme sfalsata di Steve Reich. Nel secondo, quattro donne lavorano su movimenti simili, in uno stesso gioco tra ripetizione e variazione. Insomma, nei primi due spettacoli non ci sono uomini.

«Credo che all’inizio sia dipeso dalla struttura dell’opera. Fase ha la musica di Steve Reich, che è un minimalista americano. Usai una delle prime composizioni di Reich, c’era molta ripetizione. Esplora l’idea di ripetizione nella differenza e differenza nella ripetizione. Per me fu importante che quella danza fosse un duetto, e volevo partire dall’unisono e dalla somiglianza. Il pezzo è danzato da due giovani donne. Sarebbe stato diverso sotto tanti aspetti cominciare da un uomo e una donna sul palco. Fase ha quasi quarant’anni. Oggi la percezione di una coreografia di sole donne è diversa. Dopo Fase feci Rosas danst Rosas, che era danzato da quattro giovani donne. Volevo lavorare sul mio movimento, e mantenere il lavoro vicinissimo al mio corpo. Avevo bisogno di un intenso spazio intimo per sviluppare del materiale, del movimento vicinissimi al mio corpo. Partimmo da un sentimento all’unisono, per poi creare differenze individuali tra le danzatrici. Ma negli anni ho scritto movimenti non specificamente per maschi o femmine, come ad esempio in Drumming» (del 1998, sempre da Reich).

È stato tutto un processo intorno al centro, a corpo, per capire il movimento individuale, il proprio corpo. All’inizio ha avuto bisogno di corpi simili al suo per ragionare sul corpo che aveva, poi è passata anche ad altri corpi. È difficile immaginarsi il tipo di rapporto che lega un capo compagnia, una coreografa, a chi danza per lei. Mi viene di chiederle com’è prendere chi ha un corpo diverso dal suo e farlo entrare nella sua zona, ma reagisce subito dicendo che non è la sua zona.

«Condividiamo uno spazio. Direi che il corpo è la “casa” in cui viviamo. È insieme la cosa più universale e la più individuale. È anche il modo in cui percepiamo il mondo. Durante il processo creativo, quando lavoro con i danzatori in studio, io propongo punti di partenza per la danza e prendo le decisioni finali, ma prima stabiliamo insieme un vocabolario. Che è molto specifico. È specifico sia per ciascuno sia per il nostro lavoro come comunità».

Il teatrodanza non è un’arte per le masse, e non è nemmeno considerata parte del chiamiamolo paniere culturale tipico. Forse la pandemia, con le sfide che ha posto all’equilibrio psicofisico di tutti, può aiutare chi vuole avvicinarsi a questo mondo a capire che il teatrodanza, e la danza in genere, parlano alla fatica che facciamo tutti di stare nel nostro corpo, e di muoverlo in armonia. La pandemia ci ha anche insegnato a pensare di più ai polmoni e alla respirazione, e concludo l’incontro con Anne Teresa De Kersmaeker chiedendole cosa pensa del respiro.

«La respirazione è un altro dei ritmi fondamentali del corpo. Inspiri dentro il mondo, lo processi, lo butti fuori espirando. Il battito del cuore, ispirazione ed espirazione, il camminare, aprire e chiudere gli occhi: sono tutti ritmi fondamentali. Non possiamo controllare il battito quando facciamo grandi sforzi fisici, per esempio. È difficilissimo accelerare o rallentare il battito. In molte culture però esistono lunghe tradizioni di controllo del respiro: per calmarsi, per darsi energia. C’è il respiro, e c’è il camminare, sono due approcci al ritmo, un modo di organizzare lo spazio e il tempo di ciascuno. Dalla posizione eretta, si inizia a camminare piano piano, poi si corre, poi si vola!».

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