Davvero il cinema è morto?

La mia personale premessa è che non lo sia affatto, anzi.

A margine dell’ultimo festival di Venezia Daniele Ciprì ha rilanciato la polemica: «Ci siamo accomodati nella serialità… Una volta guardai Tarkovskij in una sala coi buchi, ci pioveva dentro, e faceva freddo come freddo era il film… quello era il cinema».

Martin Scorsese lo scorso anno ha gettato il peso della sua statura sul dibattito, ha preso carta e penna e, attraverso un omaggio a Federico Fellini, ha scritto un articolo su Harper’s molto duro: «Non possiamo fare affidamento sull’industry così com’è per prenderci cura del cinema: l’enfasi è sempre sulla parola “business” e il valore è sempre determinato dal denaro». La critica alle piattaforme è feroce: «L’arte del cinema viene sistematicamente svalutata, emarginata, sminuita, e ridotta al suo minimo comune denominatore, il content». E Scorsese ha recentemente realizzato con Netflix The Irishman e Rolling Thunder Revue, due opere significative, quindi non rifiuta in toto quel “sistema”.

Quentin Tarantino a Cannes nel 2014 dichiarò: «Oggi il cinema, almeno come lo intendevo io, è morto. Il digitale è la morte del cinema». Dopo un anno di pandemia, alla Festa del cinema di Roma, ha cambiato posizione: «Questo è da vedere, attualmente nessuno può dirlo (che il cinema sia morto)».

Invece Cronenberg pensa che «il cinema è morto e a me non importa un granché, anzi, la cosa mi diverte… non vado in sala da anni per non dover subire la pubblicità».

Già da queste affermazioni si può dedurre che il cinema stia vivendo una importantissima trasformazione che ci conduce verso una nuova fase della sua storia.

È anche certo che i film possono e debbono migliorare sia sul piano artistico che su quello tecnico, anche perché il pubblico è molto esigente proprio grazie a una sempre maggiore diffusione di canali e piattaforme. Queste ultime sono diventate “la bestia nera” per gli autori che vedono depauperato il territorio della sperimentazione del linguaggio e delle forme, ma anche qui ci sarebbe da discutere, perché le piattaforme sono in realtà straordinari strumenti che stiamo ancora imparando a usare. Il problema è, come suggerisce Scorsese, che sono imprese commerciali. Ma le major cinematografiche cosa sono? Non è mai esistito un “Eden” del cinema, una “nazione libera degli autori”. Non è mai stato facile districarsi tra vincoli produttivi e industriali, ci sono registi incredibili, come Chaplin, Ejzenstejn, Kubrick, Cimino, Antonioni, Tarkovskij, Fellini, Scola (e molti altri) che hanno avuto problemi seri con l’industria e la politica, hanno dovuto combattere.

L’argomentazione contro l’appiattimento dei gusti e degli stili è sacrosanta, ma riguarda tutte le forme espressive, e cozza con la stessa storia del cinema, che è fatta solo in minima parte dai “grandi autori”; per lo più è fatta da registi morti nell’anonimato e, a volte, nella miseria, ma che hanno realizzato la stragrande maggioranza dei film e delle serie.

Lotta di classe

Per certi versi quella per un cinema d’autore, elaborato e fortemente soggettivo, è sempre stata una durissima “battaglia”, Pier Paolo Pasolini con la consueta lucidità diceva pressappoco che un film è il prodotto di una lotta tra chi possiede i mezzi di produzione, il produttore, e chi vuole appropriarsene in termini espressivi, l’autore. Lo è stata e lo sarà in futuro, di questo possiamo essere certi. È ovvio che oggi siamo a un tornante della storia, perché lo sviluppo scientifico e lo sviluppo sociale in tutto il globo hanno creato due fenomeni travolgenti: una continua rivoluzione tecnologica e una produzione di cinema a livello planetario pressoché inconoscibile. Ed è cambiata la nozione stessa di “autore” e anche quelle di “spettatore”, “fruitore”, “lettore”. È di questo che dovremmo occuparci.

Prendiamo il contratto per un film che ho sottoscritto da poco. In uno degli articoli c’è scritto che io cedo i diritti di sfruttamento dell’opera con «qualsiasi mezzo di diffusione attuale (televisione, radio, telefonia, internet e reti di telecomunicazioni, circuiti anche cinematografici e audiotel) o inventato in futuro, su qualsiasi piattaforma di diffusione attualmente in uso… televisiva analogica e digitale… rete web, anche iptv e streaming internet… e trasmessa a un pubblico presente o distante con qualsiasi tecnologia attualmente in uso o inventata in futuro».

La irrefrenabile e tumultuosa evoluzione e invenzione di tecnologie così elencate danno la dimensione del problema: è la presa d’atto definitiva della nostra immersione nel «labirinto tecnologico e degli oggetti», come ci aveva avvertito Italo Calvino. Ed è la sfida della nostra e delle future generazioni, che ci proietta ben oltre la caduta dell’“aura” e del valore “cultuale” (di culto) dell’opera individuata da Walter Benjamin.

Fino al 1945, nel mondo, si producevano film in un pugno di nazioni: Usa, Francia, Russia, Italia, Inghilterra, Germania, Giappone, Spagna, Messico e poche altre. Si trattava di alcune centinaia di film all’anno in tutto il globo. Oggi nei 193 paesi che si riconoscono nell’Onu si producono ogni anno migliaia e migliaia di film. Solo in Italia lo scorso anno oltre 200 senza contare i porno, che non sono censiti. È chiaro che né la “vecchia” sala cinematografica né la “vecchia” tv bastino più a contenerli nella loro programmazione “lineare” (possono programmare un film dopo l’altro), mentre in una piattaforma, cioè uno strumento “non lineare”, possono coesistere film “uno sopra l’altro” in una quantità virtualmente infinita, con tutti i problemi che ciò comporta, ma anche con tutte le possibilità, per esempio il libero impiego dei formati, delle lunghezze: da corti di un minuto a serie pressoché “mai finite”.

Anche i grandi festival che noi cineasti amiamo e odiamo (a seconda se ci selezionino o meno), sono vittime eccellenti di questa superproduzione. Nessun selezionatore può vedere tutti i film realizzati in Africa nell’ultimo anno, più di 1.200 (quasi un migliaio solo in Nigeria), altrettanti in India. Che senso ha, oggi, avere in un festival internazionale un film africano, un film giapponese, un film indiano, cosa rappresentano qualitativamente e quantitativamente?

Il bello è che siamo ancora all’inizio di questo sviluppo, con i computer quantistici e la loro tecnologia nanometrica (nanodot) applicata all’industria cinematografica dovremo abituarci a una crescita esponenziale di queste possibilità.

Capacità critica

Che fare per non perderci nel labirinto degli oggetti virtuali? Nessuno ha una risposta definitiva ma è probabile che lo sviluppo della capacità critica, di discernimento da parte degli individui, cioè dei cittadini, sia l’unica vera chiave. Scegliere, discriminare, comprendere e soprattutto creare, ideare dare sfogo alla fantasia… è chiaro il perché questo sviluppo ci spiazzi, è anche chiaro che da questo sviluppo stia nascendo un nuovo mondo dell’immagine digitale, una nuova produzione quindi dell’immaginario. In questo contesto, anche i grandi autori sono in “mare aperto”, devono nuotare in un contesto mutante, pieno di nuove insidie.

Che avventura sarà? Come quella dei pionieri? Dovremo reinventarlo il cinema? E perché no? Ecco che insegnare il cinema nelle scuole è diventata una questione che mette in gioco il livello di sviluppo di una società, una questione dirimente. In questo contesto il cinema documentario, per fare un esempio, può svolgere un ruolo determinante, come già accade con quello di animazione. E il cinema documentario aspetta ancora di essere davvero “scoperto” dal pubblico e anche da molti cineasti che lo vedono come fumo negli occhi. Francamente da questo punto di vista il futuro lo trovo stimolante e persino divertente, come dice Cronenberg.

 

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