Sotto mentite spoglie il nuovo giallo in blu Sellerio, numero 1355 della meravigliosa collana «La memoria», parte in tromba e fa il vuoto in classifica surclassando tutti. Antonio Manzini è un grande scrittore, ed è uno scrittore cui la serialità non nuoce
Ad Aosta proprio sotto le festività era esplosa l’ennesima moda importata e di cui, secondo il vicequestore Schiavone, si poteva in tutta tranquillità fare a meno: i canti natalizi eseguiti da cori eterogenei di anziani sgretolati, bambini, adolescenti brufolosi, donne dimenticate dal tempo, uomini senza più scopi, tutti armati di candele e di una campanella per avvertire l’inizio del solenne concerto. Insieme ad Halloween, coi suoi orrendi usi, come dolcetto o scherzetto e travestimenti di un horror da cartolibreria, ai diciottesimi, quelle feste di compleanno che tendevano a somigliare a matrimoni con tanto di vestiti comprati per l’occasione, smoking e fotografie, era venuto il turno dei cori: sassoni, celtici, scandinavi o qualunque fosse la popolazione nordica ad averli creati. «Ma perché scusa, tu pensi che Babbo Natale è una roba italiana?» gli aveva detto al telefono Furio. «Prima della guerra chi l’aveva mai sentito? A Roma c’era la befana e basta. L’hanno portato gli americani co’ ‘sta stronzata delle renne, la slitta, il Polo, gli elfi. Che cazzo so’ gli elfi? Hai mai sentito parlare di elfi non dico a Roma, ma che ne so? una Milano? una Latina? Babbo Natale se l'0è inventato la Coca-Cola. Hai visto che c’ha gli stessi colori?»
Ecco, ci volevano loro due, Rocco Schiavone e Antonio Manzini, per fare sloggiare Dan Brown dal trono e sistemarlo al terzo posto del podio col suo L’ultimo segreto per Rizzoli.
Maestri scrittori
Sotto mentite spoglie il nuovo giallo in blu Sellerio, numero 1355 della meravigliosa collana «La memoria» (la stessa che fu di Salvo Montalbano e Andrea Camilleri, la stessa che ora è di Reginald Jeeves e P.G. Wodehouse) parte in tromba e fa il vuoto in classifica surclassando tutti. Antonio Manzini è un grande scrittore, l’abbiamo detto più volte. Ed è uno scrittore cui la serialità non nuoce.
Come accadeva al suo maestro (vero maestro, Manzini ha studiato all’Accademia D'Amico con lui, poi sono diventati amici e colleghi) Camilleri e come accadeva a Georges Simenon (maestro di Camilleri e quindi anche suo). Manzini, ogni Natale che Dio manda in terra, scrive con il suo stile ormai riconoscibile, apri a caso, leggi e quella è una frase inconfondibile, una frase di Manzini in purezza, come quelle dell’incipit che avete appena letto.
È un laboratorio di alchimie narrative: una punta d’arguzia, una stilla di malinconia, il nervo teso del cronista e il lirismo di chi osserva il mondo con una lente un po’ storta, ma lucidissima. I dialoghi? Schegge di quarzo, tagliano e brillano. Le descrizioni hanno la nettezza cinematografica di fotogrammi ben messi a fuoco, come se dietro ogni scena ci fosse un regista invisibile che non sbaglia mai campo né luce. E la lingua che continua a mescolare romano e ritmi montanari con la sicurezza di chi sa che le contaminazioni, quando riescono, diventano marchio, stile, persino geografia sentimentale.
Ad Aosta è quasi Natale: quella zona grigia dell’anno in cui perfino i santi del calendario sembrano voler restare sotto coperta. Per Rocco Schiavone – che delle stagioni ama solo quelle che non capitano mai – è il momento più insidioso: il solito festival di usanze popolari che svetta, inamovibile, nella sua personale hit parade del disgusto e della rottura di coglioni, affissa in questura con la solennità di un editto.
Entrare e uscire dall’oscurità
Tutto sembra andare male. Ovunque nelle strade si esibiscono cori di dilettanti che cantano in ogni momento della giornata. La città è preda di lucine a intermittenza, della puzza di fritto, dell’agitazione dovuta all’acquisto compulsivo. Lampeggiano vetrine e finestre, auto e antifurti. Di fronte ai negozi, pupazzi di raso e fiamme di stoffa si agitano al soffio dell'aria calda dimenando braccia, testi e lingue. Non c’è da aspettarsi niente di buono. E infatti.
Una rapina finisce nel peggiore dei modi possibili, coprendo Rocco di ridicolo, fin sui giornali. Un cadavere senza nome viene ritrovato in un lago, incatenato a 150 chili di pesi. Un chimico di un’azienda farmaceutica sparisce senza lasciare traccia. Rocco non parla più con Marina. E nevica. Eppure, in questo quadro da trittico barocco del malumore, qualcosa si muove.
Sandra sta meglio, sta per uscire dall’ospedale. Piccoli spiragli, rari sorrisi, la squadra, come la chiama Rocco con un filo di sarcasmo, sembra crescere, i colleghi migliorano, i superiori comprendono. Schiavone a tratti sembra trovare le energie per affrontare gli eventi che si susseguono, le difficoltà che si porta dentro, e poi quello slancio svanisce e ancora si riforma.
Il vicequestore entra ed esce dalla sua oscurità come da una stanza male illuminata: a volte c’è un sole che lo aspetta dietro la porta, più spesso un cielo plumbeo, una promessa di gelo e di tutto il resto che lui sa già di non voler affrontare.
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