Il titolo del dialogo è Lost in Reading. Lost, perduti. Non è forse questo che sperimentiamo quando veniamo catturati da un libro? Non diciamo forse «questo libro mi prende» quando, per esempio, leggiamo Il caso Alaska Sanders di Joël Dicker? Non è questo che avviene quando smarriamo il senso del tempo leggendo una storia? Ci perdiamo. Ci dimentichiamo temporaneamente di noi stessi per entrare, almeno per un po’, nelle vite e nelle storie degli altri. Una vera e propria esperienza di immersione, come in mare, dentro un’altra dimensione. È la lettura immersiva, dove accadono cose meravigliose, come ci racconta Maryanne Wolf in Lettore, vieni a casa. L’immersione è quel carattere della lettura che rischiamo di perdere quando viviamo le nostre esistenze su uno schermo. Restiamo in superficie, “surfiamo”, ma poi non ci portiamo dietro granché. Immersi e salvati dalla lettura, cioè strappati alla banalità e a quella estroflessione di vite consumate solo sullo schermo che ci condanna a un’introversione senza interiorità.

I protagonisti della serata sono Maryanne Wolf, che ha sorvolato l’oceano, venendo da Los Angeles, e Joël Dicker, che ha attraversato le Alpi, arrivando da Ginevra. Cominciamo con un tema importante per entrambi, quello dell’empatia. La lettura è una grande esperienza di empatia: si entra nella vita degli altri, a cominciare da quella dei personaggi. Invito dunque i nostri due ospiti a parlare dell’empatia nella pratica della lettura.

Wolf: Voglio parlarvi del cervello e di come funziona quando leggiamo in un certo modo. Da bambini, a tre o quattro anni, quando ascoltiamo una storia, iniziamo a imparare chi sono gli altri, lasciando da parte noi stessi per qualche momento. Quanti di voi hanno studiato Piaget?

Egli diceva «siamo così egocentrici da giovani!» e Vygotskij, a sua volta, «ma siamo anche sociali». Tuttavia, tra Piaget e Vygotskij c’è da considerare un’intuizione molto importante a proposito del nostro cervello: apprendiamo che oltre a noi esistono altre persone, impariamo che cosa pensano, cominciamo a imparare che cosa provano. E il cervello riflette tutto ciò, non manifesta soltanto i nostri sentimenti.

Mostra anche due diversi tipi di empatia: l’empatia cognitiva, che, come fece Machiavelli nel Principe, ci aiuta a comprendere come pensa un’altra persona, cioè come funziona la mente dell’altro; ma anche l’empatia affettiva, grazie alla quale possiamo capire che cosa prova l’altro, e quali sono le implicazioni per tutto il nostro mondo. Quando guardiamo agli altri non come a una minaccia, ma con empatia, noi cambiamo nel profondo.

Il mio maestro, John Dunne, dell’università di Notre Dame, affermava che l’importanza della vita spirituale e della lettura consiste nell’andare oltre. Pensate a cosa significa: andare oltre noi stessi, verso i pensieri e i sentimenti dell’altro, ed esserne cambiati. L’empatia non riguarda soltanto noi e quello che siamo, ma noi e quello che potremmo essere, e comprendendo gli altri possiamo trarne un arricchimento.

Andare oltre significa abbandonare noi stessi ed entrare nella coscienza degli altri per un momento per poi tornare in noi stessi, cambiati. L’empatia ci cambia. Ci fornisce una prospettiva che non necessariamente abbiamo. Ci insegna. Quando ero molto giovane, vivevo in una cittadina piccolissima, che aveva soltanto una biblioteca. Davvero, non più di qualche benzinaio e tante chiese. Ma ricordo di aver pensato: «Posso essere un’avventuriera, posso essere una fuorilegge, posso visitare tanti luoghi e non sentirmi mai privata di nulla», perché c’era la biblioteca. Come diceva Emily Dickinson, ho imparato che attraverso i libri possiamo salpare verso luoghi lontani nei quali non ci saremmo mai recati.

Ma, cosa più importante, attraverso l’empatia salpiamo verso i pensieri e i sentimenti degli altri. Joël è senza dubbio il mio scrittore francofono preferito, ma la mia romanziera anglofona preferita è Marilynne Robinson. Una volta, il nostro ex presidente Barack Obama, incontrandola, l’ha definita «ambasciatrice di empatia», aggiungendo: «Mi ha aiutato più di qualsiasi corso di politica o di storia a capire che il mondo non è bianco o nero, ma pieno di sfumature di grigio». E lei ha risposto: «La tendenza a guardare all’altro come una minaccia è il più grande pericolo per la nostra democrazia.

Dicker: Inizio col dire che il libro di Maryanne Wolf Lettore, vieni a casa è forse il libro più importante che io abbia mai letto in vita mia, dal momento che spiega tutto sul processo della lettura, perché fa capire che abbiamo una missione nei confronti delle prossime generazioni, e cioè che dobbiamo trasmettere loro la capacità di leggere.
È un libro che spiega che leggere non è un atto a cui siamo destinati, ma un’abilità che abbiamo sviluppato, che il nostro cervello ha sviluppato grazie a diversi meccanismi, e l’empatia è uno di questi. Siamo stati in grado di creare una società democratica in cui vivere, e quindi la responsabilità di condurre gli altri a leggere non è solo culturale, non si tratta tanto di riunire le persone attraverso la cultura e le storie, ma piuttosto di creare e tutelare un mondo in cui vivere liberi, una democrazia. Si tratta del nostro futuro.

Uno dei temi più importanti del libro di Maryanne è quello della lettura profonda, un’attività alla quale non ci dedichiamo più. E ciò perché tutti possediamo un cellulare, e passiamo le nostre giornate saltando da uno stimolo all’altro. Quando è stata l’ultima volta che avete letto un articolo per intero, dall’inizio alla fine? Quando vi siete dedicati totalmente a un libro, di recente? Talmente tanto da mettervi seduti con un libro tra le mani senza lasciarvi distrarre dal telefono, dedicandovi davvero alla lettura profonda? Questo è uno degli argomenti più rilevanti: stiamo perdendo la connessione con noi stessi.
Ma, tornando all’empatia, è fondamentale saper riconoscere che esistono gli altri e che questi altri hanno dei sentimenti. Che è pure un modo per scoprire sé stessi, e per capire chi siamo attraverso le nostre reazioni a una storia, perché così comprendiamo, ci rendiamo conto, che abitiamo tutti la stessa terra. E questo vale sia che tu stia leggendo una storia di 200 anni fa sulla schiavitù, una storia sui migranti che hanno attraversato il mar Mediterraneo la settimana scorsa, o la storia di Anna Frank nel suo nascondiglio ad Amsterdam. Qualunque cosa tu stia leggendo, capisci che avresti potuto essere uno di loro.

Joël Dicker è un formidabile scrittore di storie, lo testimonia anche solo il fatto che milioni di lettori in tutto il mondo restano avvinti nella lettura dei suoi romanzi per diverse centinaia di pagine.Quindi, c’è un segreto in questa attività di storyteller. Ma affrontiamo la questione della lettura dal punto di vista dello scrittore: che rapporto c’è con i lettori che avete in mente quando scrivete e con i personaggi che popolano le vostre storie, che rendono visibile la complessità della vita con le sue scoperte, menzogne, verità, rivelazioni? Insomma, qual è il segreto che cattura i lettori nell’immersione profonda in queste storie, e che fa loro perdere il senso del tempo?

Dicker: Fortunatamente, o sfortunatamente, non esiste un segreto per scrivere una storia, non esiste una ricetta, ma per me una cosa è veramente importante: quello che accade nel cervello quando leggiamo e quando immaginiamo una storia. Per me è come un gioco. Io non sono ossessionato dai miei lettori, perché, quando scrivo un libro, non penso a chi potrà leggerlo, mi concentro soltanto sul mio lavoro. I miei lettori sono molto diversi, per provenienza, età e background culturale, non c’è quindi un solo tipo di lettore che mi faccia affermare «questo è il mio lettore».
Inoltre ho sperimentato, attraverso i miei libri, che un argomento può innescare reazioni diverse a seconda del paese in cui il libro viene letto. E su questo fatto non posso intervenire in termini di trama e di aspettative nei riguardi della storia. Credo però che ci sia una cosa che si aspettano tutti: essere trasportati in un mondo diverso, lontano dalla realtà. Ed è per questo che spesso dico che i miei libri, o i libri in generale, dovrebbero essere un luogo sicuro per i lettori.

Leggendo, ci lasciamo alle spalle i problemi della vita, le guerre in corso, le difficoltà economiche dopo tre anni di Covid, tutti quegli avvenimenti per cui basta accendere la televisione e guardare il telegiornale per stare male. Credo quindi che uno dei compiti dei libri sia garantire un posto tranquillo: un cellulare questo non potrà mai farlo, e nemmeno Instagram. E quel posto è solo nostro, perché è là che si crea un rapporto tra noi e l’autore, come un gioco. Quando scrivo, io ci metto solo il 50 per cento del divertimento, l’altro 50 per cento lo create voi.

Penso che sia questo il motivo per cui un buon libro è molto più potente di un buon film o di una buona serie tv. Perché il divertimento lo creiamo noi. È il grande potere della letteratura: potete creare, potete riuscirci. Ecco perché la gente ama leggere, e, Maryanne, forse puoi spiegarci il motivo per cui gli schermi hanno un influsso così nocivo sui giovani e sui bambini, offrendo un intrattenimento che non richiede nessun impegno da parte loro. Tu saprai certamente usare parole più precise: che cosa succede quando leggiamo?

Wolf: Purtroppo gli schermi sono dei babysitter perfetti. Quando i genitori vogliono uscire a cena, il modo migliore per tenere tranquilli i bambini e godersi la serata è dar loro un iPad. Se salgo su un aereo e vedo un bambino di sei mesi davanti a un iPad, mi viene da strapparmi i capelli, perché le prove sono evidenti: si chiama “effetto riccioli d’oro”.
I miei colleghi neurologi pediatrici studiano il cervello dei bambini a cui vengono lette storie da un genitore, da un nonno o da chi si prende cura di loro, cioè bambini che ascoltano solamente la storia, in comparazione con il cervello dei bambini a cui viene dato un iPad che racconta la stessa storia accompagnata da suoni di campane, fischi, rumori ed elementi che li coinvolgono. E che li distraggono.

Allo stato attuale, sappiamo che cosa accade ai bambini quando usano un iPad: diventano passivi, lo subiscono, e ricevono quella che noi chiamiamo una “caramella di dopamina”. C’è del buono nella tecnologia, ma purtroppo gli schermi stanno cambiando le funzioni del cervello dei bambini. Vi do due esempi.

Un nuovo studio, risalente a gennaio 2023, su bambini da zero a otto anni, a Singapore, in Canada e ad Harvard, ha esaminato un gruppo molto eterogeneo per studiare gli effetti sulle aree di connessione del cervello, soprattutto quelle chiamate “funzioni esecutive”, che ci rendono partecipativi, che ci impediscono di distrarci.

Nei bambini che sono stati a lungo a contatto con gli schermi queste zone sono molto colpite in senso negativo. Lo studio ci mostra che gli schermi producono cambiamenti. Ora, chi ha avuto modo di studiare Marshall McLuhan, o il suo bravissimo allievo Walter Ong, sa che il mezzo cambia il modo in cui pensiamo. Ciò che è emerso è che non cambia solo quello che pensiamo, ma che ogni mezzo, come il linguaggio, si riflette nel circuito della lettura.

Quando leggiamo, si crea questo magnifico circuito di lettura, che si costruisce nel corso degli anni, ma un mezzo come lo schermo cambia il modo in cui il cervello utilizza o non utilizza il processo della lettura profonda. Dobbiamo fare molta attenzione al fatto che il tempo trascorso davanti agli schermi è effettivamente dannoso.

Un altro studio, condotto a Barcellona, ha coinvolto più di 170mila giovani adulti, che hanno letto la stessa storia, alcuni su carta e altri su schermo. In seguito, hanno eseguito un esercizio di comprensione del testo ed è risultato che i ragazzi che avevano letto su schermo non sono stati bravi come quelli che avevano letto su carta. Possiamo quindi dedurre che velocità e comprensione non sono la stessa cosa.

E che la velocità può davvero essere importante, ma non deve togliere i millisecondi necessari al nostro cervello per attivarsi ed essere analitico, cosa che sta accadendo con gli schermi.

Vorrei ora che Maryanne raccontasse l’episodio, descritto nel suo libro, di quando, molto tempo dopo averlo letto per la prima volta – e soprattutto dopo un periodo di immersione nel web –, ha provato a rileggere quel meraviglioso romanzo di Herman Hesse che è Il gioco delle perle di vetro, e della fatica che ha fatto per calarsi nuovamente in una lettura così importante e non semplicissima. È un’esperienza comune, questa. Noi tutti, intensivi fruitori dello schermo, quando ci ritroviamo a leggere un libro facciamo fatica a riacquisire il mood della lettura profonda.

Wolf: Per molti anni ho desiderato diventare professoressa di letteratura e poesia, per insegnare soprattutto la poesia di Rainer Maria Rilke... questo perché lui e autori come Herman Hesse e Thomas Mann sono per me molto importanti. E uno dei libri fondamentali per me è Il gioco delle perle di vetro. È un libro difficile, ma quando ero giovane lo adoravo. Hesse ha vinto il Nobel per la letteratura per molte opere, ma soprattutto per quella.

Tornando all’episodio, era un periodo in cui scrivevo libri sui giovani lettori, preoccupandomi che potessero perdere il meccanismo della lettura profonda, cosa che, compiaciuta, non credevo sarebbe successa a me. Ma uno psicologo deve sempre esaminare anche sé stesso.
Così ho utilizzato me stessa come caso di studio: prendendo un libro che conoscevo, di cui sapevo la trama, avrei osservato quanto sarei riuscita a immergermi nella lettura. Ho preso il libro e l’ho aperto. E ho subito pensato: «Come ha fatto a vincere il premio Nobel?» e «come ho potuto avere un così cattivo gusto in fatto di libri?». Ho abbandonato il libro e ho pensato: «Non lo dirò mai a nessuno!».

Una volta mi è stato chiesto quale fosse la mia relazione coi libri e io ho risposto: i libri sono miei amici. Lo sono sempre stati. Voglio essere, coi miei libri, leale tanto quanto sono con i miei amici. Quindi, con riluttanza, ho ripreso il libro che avevo abbandonato: mi ci sono volute due settimane per impormi una disciplina. Avevo programmato di leggere circa venti minuti e poi smettere, ma provando a rallentare.
Non è però solo una questione di velocità, bensì di concentrare l’attenzione, di focalizzarsi, di andare oltre la superficie delle parole. Ogni parola è come un iceberg, densa di significati e associazioni.  Non dimentico ciò che Italo Calvino ha scritto nelle sue Lezioni americane: che una delle cose più importanti è trovare le mot juste, la parola perfetta. La perfetta espressione, quella più vicina possibile ai nostri pensieri.

Il filosofo Charles Taylor ha detto qualcosa di molto simile: le parole, quando le usiamo bene, hanno un aspetto innato. E su questo punto vorrei ascoltare Joël, perché voglio sapere come fa, come riesce a scavare dentro di sé per estrarre quelle parole, per sceglierle, per trovare il significato che possa stuzzicare il lettore come lui desidera.

Tutto questo mi è mancato quando ho riletto Herman Hesse. Non andavo oltre la superficie, leggevo con grande fatica. E poi a un certo punto, in quelle due settimane, è stato come se fossi tornata a casa ‒ da qui il titolo del mio libro: Lettore, vieni a casa. Sono tornata a casa da me stessa. Talvolta uso anche la parola “santuario”, perché è un luogo dove nessuno ci può disturbare. Un luogo dove trovare sé stessi. Dovevo fare proprio questo, e farlo attraverso la disciplina, perché le mie 10-12 ore quotidiane davanti allo schermo avevano danneggiato anche me, esattamente come gli altri, solo che io ero intellettualmente presuntuosa.

Pensavo che a me non sarebbe mai successo, perché conoscevo i meccanismi in gioco, ma non è stato così. È avvenuto tutto in modo impercettibile. E ho perso la mia abilità. Ma ho due buone notizie.

Nonostante io debba comunque stare dieci ore al giorno davanti allo schermo per lavoro, adesso lo faccio in modo diverso, conoscendo l’antidoto. Ogni mattina, e sono consapevole che non tutti possono permetterselo, ho il lusso di poter dedicare venti minuti alla lettura di qualcosa che richieda la mia completa attenzione, che rallenti me e non solo i miei pensieri. E questo cambia il modo in cui mi sento per il resto del giorno. Poi di nuovo a fine giornata, qualunque cosa io abbia fatto la sera, provo a leggere per altri venti minuti. Qualcosa di

tranquillo, che mi ricordi la bellezza della lingua, la bellezza della terra, di quanto siamo piccoli. Quindi ecco la prima buona notizia: possono farcela tutti, ma bisogna avere disciplina. E la seconda buona notizia è che, nel viaggio di venti ore di volo per arrivare fin qui, ho letto Hesse e Goldman su carta e non su schermo, e ne sono stata così felice!

Dicker: Vorrei ricollegarmi a quello che hai appena detto, perché è una domanda che mi fanno spesso durante gli eventi di firmacopie dei miei libri: i lettori forti mi chiedono come riuscire a far leggere i propri figli che non vogliono assolutamente farlo. Credo che le tue parole, Maryanne, siano molto importanti: possiamo fare qualcosa, dobbiamo renderci conto della responsabilità che abbiamo.
Prima di venire qui, camminavo per il centro di Milano insieme a molti altri turisti come me, e ho visto una coppia di genitori, anch’essi turisti, con un bambino nel passeggino. Mentre giravano per la città, il bambino teneva davanti a sé uno schermo, sul passeggino! Ho pensato che siamo arrivati al punto in cui, pur di far stare tranquilli i nostri figli, siamo disposti a tutto, persino a intervenire sul loro cervello, nel modo sbagliato.

Che cosa possiamo fare per le persone che non leggono? Sono convinto che tutti amino leggere, ma che non tutti ne siano ancora consapevoli. L’ho visto accadere molte volte, ho visto tante persone iniziare a leggere grazie a un libro che hanno amato. E l’ho visto accadere anche in carcere, dove alcuni detenuti discutevano se fossero in grado di leggere una storia. Perché spesso le persone vedono un libro e pensano «Non sarò mai in grado di leggere tutto il libro!».

Ma io credo che tutti abbiano quei venti minuti al giorno di cui parlava Maryanne, basta guardare sul nostro telefono, che tiene traccia delle nostre attività, quanti minuti e quante ore passiamo sulle app. Allora, lasciatemi dire che, se usate Facebook o Instagram o Snapchat per più di venti minuti al giorno, avete venti minuti per leggere. Credo che la gente pensi ancora che per leggere bisogna sedersi, ogni martedì sera per esempio, lasciare il telefono in un’altra stanza e forzarsi ad aprire un libro.

Ma no, non abbiamo più il tempo per fare così. Leggere significa avere un libro sempre con sé, nello zaino, nella borsa, in tasca. Un libro che si possa leggere sull’autobus, in metropolitana, nella sala d’aspetto dal medico (perché il medico è sempre in ritardo), in pausa pranzo, o al bar mentre si attende un amico. Potete dedicarvi alla lettura per cinque minuti alla volta. Magari dieci, ma cinque sono già sufficienti. Fate in modo che certi piccoli momenti di noia diventino occasioni per leggere. E fatelo con i vostri bambini, con i vostri nipoti.

Così inizieranno a leggere, capiranno quanto fa bene, si appassioneranno a una storia, la sentiranno. Non dovete fare niente di più per far leggere le persone. Credo che sia questa la buona notizia: non è un processo della durata di anni, non c’è bisogno di minacciare le persone e obbligarle a leggere. È molto facile. Devono solo entrare in connessione con la lettura. Un articolo che ho letto di recente riportava che, se riuscissimo a leggere nei tempi morti, potremmo arrivare a cinquanta libri all’anno. E allora usiamoli, questi momenti.

(Traduzione di Chiara Ascoli, revisione di Simona Plessi)


Questo testo è tratto dall’ultimo numero della rivista Vita e Pensiero, ed è la trascrizione di un dialogo svoltosi l’11 maggio 2023 all’università Cattolica di Milano. Maryanne Wolf, neuroscienziata cognitivista, è una delle più importanti studiose al mondo del cervello che legge e della dislessia. È autrice dei saggi divulgativi Proust e il calamaro (Vita e Pensiero, 2012) e Lettore, vieni a casa (Vita e Pensiero, 2018). 

Joël Dicker è uno scrittore, autore di romanzi best seller come La verità sul caso Harry Quebert (Bompiani 2013) e Il caso Alaska Sanders (La nave di Teseo 2022). La loro conversazione è stata moderata da Aurelio Mottola, direttore della casa editrice Vita e Pensiero.

In questo numero della rivista ci sono interventi anche di Cristoph Schönborn, Marco Di Porto e Younis Tawfik, Giuliano Zanchi, Maurizio Cecchetti, Maria Antonietta Crippa e Roberto Pietrosanti, Sergio Givone e Marco Ceruti.

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