Sul sito americano The Verge, Amrita Khalid non esita a definire il 2023 come «un anno particolarmente caotico per il podcasting», un passaggio destinato a influenzare il futuro del settore. Per due ragioni almeno. La prima, legata all’industria, ci riporta a notizie di qualche mese fa: come i circa 200 licenziamenti da parte di Spotify nella relativa divisione, i cambi di strategia, e la chiusura annunciata di Google Podcast in favore di YouTube Music.

La seconda, di carattere più contenutistico e autoriale, riguarda la predilezione di YouTube per i prodotti video first. E cioè, in qualche modo, viene stimolato un trend già in crescita e piuttosto diffuso: quello del riadattamento dei podcast in un contenuto prettamente visivo.

«Oggi potrebbe sembrare strano, ma c’è stato un momento in cui i podcast non si vedevano», scrive infatti Pietro Minto su Link, analizzando il fenomeno: un prodotto che sta quasi sovrascrivendosi all’originale in audio con la sua estetica, e con un immaginario ben codificato che include grossi microfoni, cuffie, possibilmente un logo al neon, e tante chiacchiere.

Jonathan Zenti viene da entrambi i mondi. Conosce bene l’industria dei podcast, che ha visto nascere da zero come audio e podcast designer. Ed è autore di Problemi, uno dei progetti più iconici del podcasting italiano, oltre a curare vari titoli di successo. Ho pensato di contattarlo per fargli qualche domanda su questo 2023, sulla scena italiana, e sul futuro del settore.

Mi spiegheresti il tuo lavoro, in breve?
Ho iniziato a fare audio in un’era storicamente nota come radio revolution, un mondo in cui tutto era un po’ più artigianale. In seguito, quando è esplosa l'industria dei podcast, più del resto ha cominciato ad appassionarmi l’aspetto della progettazione – tanto che man mano ho preso a usare la definizione di audio e podcast designer. E dunque: mi occupo di progettare contenuti audio, distribuiti in genere attraverso la tecnologia del podcast, con modalità diverse a seconda di chi me lo chiede. Poi ho anche le mie cose, come Problemi: un podcast sulle relazioni con un taglio un po' comico, un po’ narrativo.

Cos'è un podcast? O meglio: cos'è, oggi, un podcast?
Sin dall’inizio del fenomeno – e cioè dall'esplosione di Serial, nel 2014 – ho imparato sfruttare una definizione di Eleanor McDowall, un’autrice inglese secondo la quale non sarebbe altro che una tecnologia di distribuzione di contenuti audio. Né più né meno di un’antenna radio.

Oggi, però, la percezione è che siano per lo più video in cui delle persone parlano con un microfono davanti alla faccia. Un anno, due anni fa non era così.
Ecco: ho l'impressione che per parte del pubblico – e forse, in particolare, quello più giovane – “podcast” voglia dire soprattutto “famosi di internet che si filmano dietro a un microfono”.

O ancora, “intervista in video con personaggio controverso”. Anche tu hai questa sensazione?
Sì. O meglio, cambia a seconda di come cambia il mercato. Ti faccio un esempio: negli Stati Uniti, dove ho avuto l’opportunità di imparare, a un certo punto verso fine 2015 si diceva che il podcast fosse quel racconto a puntate, con un inizio e una fine, un narratore esterno, tanta sound design e la musica originale. Come una serie. Sei mesi dopo ne è uscito uno chiamato My favorite murder, due amiche sul divano con un microfono da dieci euro, e nei tre anni successivi il podcast è diventato questo: i chat show.

Quindi: c’è stato sì un momento in cui, negli ultimi anni, sembrava che potessero diventare delle specie di serie tv. Poi a inizio del 2023 Spotify – per usare una definizione di un articolo di Bloomberg – ha deciso che non sarebbe più stata HBO, ma che voleva diventare YouTube. Passando quindi da un’offerta di qualità a pagamento, a un modello basato sulla pubblicità dove la responsabilità del successo di un podcast è tutta sulle spalle di chi lo fa.

Tieni conto poi che si tratta di un prodotto difficile, e che si basa su una tecnologia un po’ vecchiotta, i feed Rss (un formato di distribuzione dei contenuti a cui gli utenti possono accedere iscrivendosi): non gira sugli algoritmi, quindi è molto complicato da promuovere. E così, i video podcast con la gente col microfono a patata davanti alla faccia sono nati per trovare una risposta a questo problema, e sfruttare piattaforme come TikTok o i Reels. È il mercato che porta in quella direzione.

In questo panorama, come si posizionano i tuoi podcast? In Problemi parli spesso di modelli di monetizzazione, di sostenibilità.
Nel mondo della produzione indipendente, negli ultimi tempi, si parla molto del cosiddetto independent ceiling: di quel limite massimo che un progetto indipendente può aspirare a raggiungere. Oggi che si è abbassato di molto il valore del Cpm (il costo ogni mille ascolti per una pubblicità), alcuni progetti indipendenti che si erano convertiti a questo modello hanno finito per chiudere – non ultimo The truth, che andava avanti da una dozzina di anni, e che si è fermato due mesi fa proprio perché non era più sostenibile.

A restare in piedi, invece, sono sempre di più progetti basati su un'economia composta dalla sponsorizzazione di un’azienda o un marchio, e dal supporto economico dei sostenitori. I miei podcast stanno in questo universo: sostenibili e con una community abbastanza solida, ma non scalabili. Non sono il supermercato ma il panificio di quartiere, dove da anni va sempre la stessa gente a comprare sempre lo stesso pane.

Si legge sempre più spesso che coi podcast, molto prosaicamente, non ci si fanno i soldi. È così?
L'audio non si basa sulla quantità, ma sulla forza della relazione con il pubblico. Esistono casi virtuosi, per esempio, in cui non fa guadagnare in modo diretto, ma è parte di un ecosistema di contenuti che contribuisce alla crescita degli abbonati di una testata.

Quando con Internazionale, col quale collaboro, abbiamo pensato a dei casi di successo come Limoni nel 2021, e poi Il Mondo, non l’abbiamo fatto con l’intento di “farci i soldi”, ma di inserire quei titoli all’interno di un ecosistema in cui il magazine viene tradotto in varie forme, e l’audio cerca di raccontarle tutte.

Oppure, altro modello: costruirsi un percorso di lungo respiro, che è il mio caso. Facevo audio da prima che diventasse un fenomeno di massa, e probabilmente lo farò fino a quando l'Inps mi dirà che non avrò una pensione. Non ho mai voluto “svoltare”, ma costruire qualcosa e nel frattempo avere un reddito: pensare di sedersi dietro il microfono e fare 5mila euro al mese è qualcosa che in pochissimi possono permettersi.

Se dovessimo fare una foto dello scenario italiano? C'è un qualcosa che lo connota? Magari rispetto al panorama americano, per esempio.
La grossa differenza tra gli Stati Uniti e gli altri paesi è che lì il podcast è arrivato dopo un momento di rivoluzione artistica, culturale, che ha poi aperto la strada a un'industria. Da noi, invece, è arrivata direttamente l'industria: passami il sarcasmo, facevamo della brutta radio, e a un certo punto abbiamo cominciato a fare dei brutti podcast.

Il progetto davvero rivoluzionario per lo scenario italiano, per me, è quello di Alessandro Barbero, curato da Fabrizio Mele, che ha reso accessibile una grandissima mole di contenuti. Il fatto che dal 2018 macini centinaia di migliaia di ascolti a settimana, e che il pubblico abbia risposto in maniera così forte per così tanto tempo, ci fa dire che in quel progetto c'è evidentemente qualcosa di interessante.

Adesso, anche un po’ in virtù del fatto che girano meno soldi, stiamo cominciando un po’ a chiederci come si possa usare quello strumento – magari stimolando, mi auspico, anche una riflessione da un punto di vista artistico culturale.

Ci sono progetti che segui con interesse, da questo punto di vista?
Mi attira molto di più chi fa uscire una cosa fatta senza troppi mezzi, piuttosto che un'operazione chiaramente riuscita che però già aveva tutti gli strumenti per farcela. Andare a scovare progetti in mezzo alle rocce, e vedere se c'è qualche pianta pioniera che spunta e che ha qualcosa da dire.

Penso a C'è vita nel grande nulla agricolo? di Nicolò Valandro, per esempio, un progetto di fiction podcast indipendente che nel giro di due anni si è creato un suo pubblico, e fa live sempre più grossi.

Come anche Tintoria, che adesso è cresciuto tanto ma si è trovato nel posto giusto al momento giusto perché Daniele Tinti, nel tempo, ha continuato ad andare avanti anche quando intorno a lui niente gli faceva pensare che quella cosa potesse crescere.

È molto interessante, poi, l'approccio di Mis(S)conosciute, che parla di scrittrici dimenticate con una ricerca editoriale e una composizione del testo molto precisa. Si sta man mano professionalizzando, e quando finisci l'ascolto ti sembra di avere un contenuto molto forte in mano.

Un altro dei miei preferiti, infine, è La dinamica, in cui si parla di incidenti di montagna raccontati da chi li fa – anche qui c'è una cura nelle testimonianze e nei racconti tale da riconnettermi con l’enorme potenziale del mezzo.

A tal proposito: che futuro vedi per i podcast, come strumento e come forma di intrattenimento?
Proviamo a dividere i podcast dall’audio. I podcast cambiano e cambieranno come hanno sempre fatto, seguendo le regole del mercato: dipende da chi li fa, chi li produce, chi ci mette i soldi, e da che cosa vuole ottenere. L’importante è costruire contenuti pensati – possibilmente – per gli ascoltatori. Occupare il loro tempo nella maniera più sacra possibile.

Per quanto riguarda l'audio, invece, non ho nessun tipo di timore: è una cosa che l’uomo fa da 14mila anni, raccontarsi che ha visto i bisonti, che cosa facevano quelli di prima, che cosa faranno quelli che verranno dopo, cosa è successo nelle guerre puniche.

Lasciare una nostra testimonianza come specie attraverso la voce, il suono, i rumori, la musica, non cambierà e ci saranno sempre modi e tecnologie per farlo. Sull'audio sono tranquillo, insomma. Sul podcast dipende.

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