«Io c’ero», si usa dire per i concerti che fanno la storia. Io c’ero a Monza, questo 25 luglio, a sentire Bruce Springsteen – che mi rifiuto di chiamare The Boss perché non piace nemmeno a lui – per due ben distinte ragioni. La prima è che non ho mai perso un tour di Springsteen dal remoto 1988. La seconda è che il suo viaggio in Italia, quest’anno, è stato un grand tour tra i disastri.

Le ferite della Romagna erano sangue vivo quando Springsteen è salito in maggio sul palco di Ferrara. La gente come me che lo sente fratello e anche di più, una parola, senza pretenderla, se la aspettava. Non perché fosse dovuta, ma perché era da lui.

Non c’era nemmeno bisogno di donazioni e di raccolte fondi autopromozionali. Aspettando che salisse sul palco del suo ultimo concerto europeo, sul prato della Gerascia di Monza, con i fan arrivati da Ferrara ne abbiamo parlato. Sappiamo tutti che i promoter tendono a occultare le piaghe dei contesti locali perchè gli artisti si esibiscano in pace. The show must go on. Ma Bruce è Bruce. Non è nato ieri.

L’uragano milanese limitrofo della vigilia, notte del 24 luglio, era la prova d’appello. In scena, niente da segnalare. Spettacolo travolgente, ma senza sorprese né esternazioni di nota. Niente conigli nel cilindro, come la Michelle Obama sul palco della prima data europea a Barcellona, in aprile. Ma soprattutto niente parole mirate, nessuna riflessione a posteriori. C’è qualcosa che dobbiamo imparare, possibilmente con leggerezza.

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Come la pallina di un flipper

Il mio primo incontro con Springsteen live l’ho avuto a trentasette anni, da absolute beginner. Concerto torinese galeotto: ci ho incontrato il mio futuro marito, ma l’anima era già sua. Il solo incastro possibile in questo 2023 era il concerto finale di Monza. L’accredito di Barley Arts (per precauzione richiesto con un anno di anticipo) mi è arrivato il 23 luglio.

Ho solo un anno meno del ragazzo di Asbury Park, ma potevo solo armarmi di zainetto d’ordinanza e partire raccomandandomi a tutti i Santi censiti. Negli anni ho praticato tutti gli stadi musicali d’Europa, Wembley compreso. Monza a quale pianeta appartiene, all’indomani di un nubifragio?

La sacra transumanza

Da Milano Centrale sono partita alle 16.20. Sono arrivata sotto palco alle 19.15. Springsteen doveva salire sul palco un quarto d’ora dopo. In mezzo, un delirio comico che al Nostro farebbe bene sapere: è fanseria eroica. Sei chilometri e mezzo a piedi sarebbero niente, se non ti sentissi pedina di un Monopoli truccato. Non c’è casella che non ti rispedisca al ‘via’. Nel parco di Monza un chiletto e mezzo ce l’ho lasciato. Non sarà sterminato, ma mi è sembrato più grande di Yellowstone.

Non è facile consolare un tassista nel panico perché tutte le vie consuete d’accesso all’area del parco sono ostruite. Più complicato è, da pedone ordinario, misurarti con una coorte di gilet gialli (nessuna parentela con quelli francesi), assunti per la bisogna con l’apparente incarico di rispondere «non so» a qualsivoglia quesito. Sorridendo però soavemente, con cortesia. Mi sono informata: li pagano sei euro l’ora, alla faccia del salario minimo, immagino al solo scopo di sollazzare il viandante.

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Eravamo in 70 mila  – limite di capienza – e la transumanza verso i controlli di sicurezza a passo d’uomo aveva qualcosa di biblico. Nel mio specifico cercavo, nell’ordine:

  • il botteghino accrediti, tappa obbligata per l’indispensabile "braccialetto”
  • la sala stampa;
  • il settore PIT A, meta finale.

Sudore e fatica a parte, rimbalzare come una pallina da flipper da un aggregato di gilet gialli all’altro potrebbe diventare uno sport olimpico, se non ti disturbano gli sguardi pietosi di gente che non ha la più pallida idea di quello che chiedi.

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Il mondo a parte dei concerti

Guardando su Netflix i film britannici in bianco e nero degli anni Cinquanta, ho imparato da poco che pub è solo l’abbreviazione di public house, casa pubblica. Tra settant’anni magari riuscirò a decifrare (e i gilet gialli con me) codici che prevedono PIT A, B, C, D, nonché nuove valute specifiche.

Puoi morire di fame e di sete, per dire, se non sei munito di Token. Il Token è un gettone che costa due euro (una birra costa tre Token) ed è la moneta ufficiale di tutti i concerti degni di questo nome. Peccato che le casse del concerto siano sprovviste di Pos, quindi devi pagare in euro, con le monete contate. Se hai tempo ed energia – soprattutto energia – da sprecare, è un hobby spassoso.

I ricordi

Poi Bruce arriva sul palco e a tradimento attacca “No Surrender”. E tu zampilli lacrime come i clown dei circhi à l’ancienne, perché sta cantando solo per te.

Forse i grandi concerti sono l’ultima vera esperienza di democrazia che ci resta. Tutti uguali davvero, e tutti civili: se urti qualcuno e gli fai versare la birra non ti prende a sassate, sorride.

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La gerarchia però lassù è rispettata. La bandana viola di Little Steven precede le chiome rosse di Patti Scialfa. E Dio sa se l’hai odiata con tutta l’anima ai tempi di “Tunnel of Love”, quando l’amore con la corista immessa nella E Street Band da Steven Van Zandt sbocciava.

Bruce l’hai incontrato solo una volta nella vita. Sei scesa nell’atrio del tuo albergo e c’era solo un tizio col cappellino. In mano avevi il suo ultimo CD, e lui con la mano ti ha detto’ vieni’ e te lo ha firmato. Adesso non passa dal parrucchiere a tingersi la ricrescita, come usiamo fare noi derelitte, e ha grumi di età sul mento.

Ma non sono rughe di tristezza, non è il triangle of sadness su cui ironizza Ruben Ostlund. E’ più segnata dalla vecchiaia la sua chitarra, che si guarda bene dal restaurare. Pensi che vorresti avere il suo corpo, oggi, come da piccolissima avresti voluto avere quello di Yul Brinner ne “I Magnifici Sette”. Qualunque cosa questo significhi. Qualunque cosa significhi il fatto che entrambi sono vestiti di nero, che è poi il tuo outfit d’ordinanza.

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Il nipote di Clarence Clemons al sax tenore è una madeleine proustiana per chi si è goduto zio “Big Man” al suo meglio. Tanto l’epigrafe arriverà, in finale, è immancabile. Sembrano, i suoni di Bruce, in sintonia con la luce. Con “The River” il buio cala, ma piano, sulle lande padane.

Non sono una critica musicale e non sto recensendo un concerto. Questo, relativamente parlando, è stato un concerto ordinario, senza passerelle per farsi carne e sangue col pubblico, senza ospiti VIP, senza la dama rituale con cui ballare “Dancing in the Dark”. C’era più spazio forse per i ricordi, i suoi e quelli comuni.

Ho ricordato il Little Steven della sua sfigata deviazione solista, quando lo incontravi al bar perchè di colpo era diventato uno qualunque. Per fortuna poi è tornato all’ovile. Ho ricordato i racconti di Patti Smith sulla genesi di “Because the Night”, un testo cui le note di Springsteen hanno fornito le ali. E mi è difficile dire chi dei due la canti con più passione. 

Per favore, svezziamoci

Gli integralisti del culto springsteeniano dovranno incassare lo smacco. Sui disastri italiani Bruce ha glissato. Non ha nemmeno parlato alla lontana, diplomaticamente, di ambientalismo. Sa farti ballare come nessun altro al mondo, e ancora sperare, ogni tanto.

Non chiediamogli di essere l’Uomo della Provvidenza. Lo dico per i miei simili: sarebbe ora di svezzarsi, no? Ma i suoi coetanei armati di zainetto, quando vanno a sentirlo senza paracadute, sull’happy ending possono sempre contare. Chi come me ha lasciato in coda i dilemmi del dopo-concerto, ovvero con che c.. di mezzo tornare da Monza in quel di Milano, ha trovato la soluzione a portata di mano.

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Passo l’idea, al netto di copyright. Medici e infermieri della Croce Rossa prima o poi a casa ci tornano. Al primo medico che ho interpellato ho solo accennato l’indirizzo della mia casa ospitante e un nome: Dori. Non gradirebbe le sue generalità sbandierate, ma è stato un medico di Fabrizio De Andrè. L’Olimpo greco mi perdoni se non credo che esista un dio della musica. Adesso però sono tentata di crederci.
 

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