L’opera musicale di Luciano Berio prende una nuova forma grazie alle coreografie di Wayne McGregor: «Nella sua musica c’è una luce anche nel mezzo della violenza: la possibilità di creare delle costellazioni umane»
«Venid a ver la sangre por las calles», venite a vedere il sangue per le strade. Il verso di Pablo Neruda compare ripetutamente, proiettato sotto i corpi dei danzatori, come monito che attraversa lo spazio, dal palcoscenico fino alla platea. Siamo di fronte alla prima rappresentazione, dopo 50 anni, di Coro, opera musicale di Luciano Berio, che prende una nuova forma grazie alle coreografie di Wayne McGregor, direttore del Settore Danza della Biennale di Venezia. Lo incontriamo poche ore dopo il debutto in Prima Assoluta al Teatro La Fenice, nella sede storica della Biennale, Cà Giustian, affacciata su una laguna assolata.
«Berio ha scritto quest’opera tra il 1974 e il 1976, in un periodo particolarmente instabile in Italia, in cui c'era una fortissima violenza politica. Per questo ho scelto Coro, perché riflette perfettamente la situazione politica mondiale attuale», spiega Wayne McGregor.
Così, per la prima volta nella storia, Coro viene coreografato: «Un privilegio irripetibile», reso possibile grazie ad un permesso speciale concesso dalla Fondazione Berio, proprio in occasione del centenario dalla nascita del compositore, e inserito nell’ambito dei Progetti Speciali dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia.
Un dialogo
Il coreografo ha scelto Coro tra il corpo immenso di opere dell’autore, perché lascia una speranza anche nei momenti più bui: «nella musica di Berio c’è una luce anche nel mezzo della violenza: la possibilità di creare delle costellazioni umane». Coro fa dialogare, in un unico corpo, orchestra e cantanti, eliminando qualsiasi gerarchia e mettendo tutti sullo stesso piano. «Ho cercato di tradurre questo senso di comunità nella coreografia, alternando momenti di frammentazione e di ricongiungimento».
In scena venti danzatori, dieci della Company Wayne McGregor e dieci selezionati tra i migliori partecipanti al progetto Biennale College, si sono esibiti accanto alle quaranta voci del Coro della Cattedrale di Siena «Guido Chigi Saracini» e ai quaranta musicisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice diretta da Koen Kessels.
Berio aveva ideato Coro come un’opera da palcoscenico, con una sua logica coreografica ben precisa. La distribuzione dei cantanti e degli strumentisti sul palco, uno accanto all’altro, come fossero un corpo unico, vibrante e vivo «ha lo scopo di rinforzare acusticamente e visivamente il vasto campo di interazioni tra le voci e gli strumenti», spiegava Berio.
I danzatori entrano in scena, uno dopo l’altro, nel silenzio che precede la prima nota, e si dispongono eccezionalmente sopra alla buca orchestrale, coperta da un palco calpestabile, proprio di fronte all’orchestra illuminata da stringhe di neon. «L’opera possiede già una sua coreografia interna», spiega McGregor, «ma è stato affascinante osservare come i corpi vengano influenzati dalla musica e al tempo stesso la influenzino, attraverso l’empatia cinetica, quella capacità di stabilire una connessione profonda attraverso il movimento».
A volte è la musica a guidare la coreografia, altre volte è la linea coreografica a creare un vero e proprio contrappunto. «L’intenzione è far percepire la sensazione della musica nel corpo, fino agli spettatori». La composizione fisica e sonora appare come un’onda, che dall’orchestra attraversa i danzatori e esonda sulla platea. «Volevo che la musica non fosse percepita solo con la testa, ma si potesse sentire nel corpo, come si avverte un cambiamento nel tempo atmosferico».
I danzatori, in tute aderenti bianche e grigie, fluiscono tra avvicinamento e allontanamento, accorpamenti e frammentazioni, fino a convergere in un cerchio, simbolo del collettivismo evocato da Berio e profondamente condiviso da McGregor. Spinti da due forze, una interna e una esterna che deriva della musica alle loro spalle, i danzatori arrivano a sfondare la quarta parete. Il pubblico risponde con 10 minuti di applausi.
Giovani e maestri
A catturare lo sguardo è il movimento limpido e vibrante di energia di Salvatore De Simone, da quattro anni nella compagnia di McGregor, grazie al percorso della Biennale College, che rappresenta un ponte solido tra i giovani talenti e i grandi maestri. Non a caso Biennale Danza investe nelle nuove generazioni, attraverso nuove commissioni e bandi sempre più partecipati (oltre 700 domande di iscrizione nel 2025).
McGregor non lo nasconde: senza sostegno le nuove generazioni rischiano di perdersi. «Dobbiamo sostenerli perché sono molto creativi, disciplinati e dedicati all’arte ma spesso non sono ascoltati». La musica di Berio, per tanti di loro è stata una scoperta «tanti teatri non si prendono il rischio di programmare opere così complesse, eppure è importante che anche artisti come lui diventino popolari tra i giovani, perché offrono loro nuovi modi di interpretare».
McGregor, che di solito lavora su musiche commissionate, ricorda con un sorriso la lunga attesa per Steve Reich: anni di silenzio e nessuna risposta, poi una telefonata improvvisa per annunciargli che avrebbe composto un nuovo brano in occasione degli 80 anni del compositore. «Ogni collaborazione nasce sempre da un incontro umano, non c’è mai niente di precostituito. Mi sarebbe piaciuto chiedere a Berio di comporre una musica per me, sarei curioso di sapere cosa avrebbe risposto».
Tra le sue figure di riferimento del mondo della danza c’è senz’altro Merce Cunningham, che McGregor incontrò negli anni Novanta a Londra per intervistarlo: «Alla fine mi ha fatto più domande lui di quante gliene abbia fatte io. Da lui ho imparato l’umiltà di rimettersi sempre in gioco. Se fossi su un’isola deserta vorrei solo YouTube per rivedere gli spettacoli di Cunningham, perché non mi annoiano mai, mi rigenerano sempre. Come i quadri di Agnes Martin».
Per questo spettacolo, l’artista ha collaborato con le maestranze e l’orchestra della Fenice, reduci dalle polemiche sulla nuova direzione artistica. «Questo progetto enorme è stato realizzato in tempi brevissimi proprio grazie alla collaborazione di tutti». Ed è proprio questo il senso ultimo di quest’opera che rinasce grazie alla forza della collettività, alla complicità tra artisti, tecnici, musicisti e istituzioni.
La direzione artistica non può agire in solitario, ma è un motore collettivo: «Deve avere visione e talento da condividere con il suo gruppo di lavoro. E soprattutto deve avere la capacità di provocare, di rischiare, anche quando c’ è una grande eredità da portare avanti. Tutto va fatto nel dialogo e nella condivisione».
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